Pride: la genesi di un movimento
Se si vuole andare al cuore del significato del Pride (escludendo, dunque, l’infelice mercificazione che alcune aziende generano attorno e all’interno del movimento al solo scopo di vendere un prodotto), bisogna tornare indietro di circa cinquant’anni, negli Stati Uniti.
Nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969, un gruppo di poliziotti fece irruzione nel Stonewall Inn di New York, un locale di Greenwich Village, allora punto di ritrovo della comunità omosessuale newyorkese. In quegli anni, le retate della polizia non erano affatto infrequenti, anzi, l’essere omosessuali o appartenere ad una comunità che la società si rifiutava di riconoscere e accettare erano considerate dalla polizia ragioni sufficienti per fare abuso di potere e infierire con minacce, percosse e arresti.
Il giorno dopo la retata, 500 manifestanti della comunità omosessuale di New York scesero in piazza partendo dallo Stonewall Inn, dando vita al primo corteo LGBTQ+. Lo slogan che allora venne usato trasmette ancora oggi un messaggio molto chiaro: «Say it clear, say it loud. Gay is good, gay is proud».
In principio la manifestazione non fu pacifica, poiché diverse decine di poliziotti furono schierate per contenere il corteo, ma in seguito ai violenti scontri con la comunità omosessuale di New York, più di 500 agenti furono chiamati a rispondere delle violenze perpetuate.
La manifestazione del 28 giugno 1969 venne soprannominata “I moti di Stonewall” (durati tre giorni). L’anno successivo alla retata, nel 1970 a New York venne organizzato il Pride, proprio in ricordo dei moti di Stonewall. Allora la manifestazione si chiamava “Christopher Street Liberation Day March” (dato che Christopher Street è appunto la strada dove si trova il Stonewall Inn) ed entrambe sono tuttora un simbolo internazionale del Pride.
Ci furono altre marce anche nelle città di Chicago, San Francisco e Los Angeles.
Ad oggi il 28 giugno è la giornata mondiale dell’orgoglio LGBTQ+, ed è per questo che il Pride month cade in giugno.
UE e comunità LGBTQ+: un percorso a zigzag
Negli ultimi 26 anni l’Unione europea ha promosso attivamente l’uguaglianza per persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali.
La Commissione europea ha cercato di sensibilizzare i cittadini e le cittadine ai diritti delle persone LGBTQ+, con l’obiettivo di mostrare che a prescindere dal genere o dall’orientamento sessuale, bisogna beneficiare dei medesimi diritti.
L’UE ha incluso la tutela delle persone LGBTQ+ nei documenti fondamentali, quali il Trattato di Amsterdam (1997), la Carta dei diritti fondamentali (2000) e le direttive antidiscriminatorie.
Per quanto il proposito sia di vedere realizzato quest’obiettivo in ogni Stato membro dell’UE, la situazione varia infelicemente da un Paese all’altro.
Nel 2013, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) ha presentato i risultati di un’indagine che ha dimostrato che, in tutta l’UE, le persone LGBTQ+ subiscono ancora discriminazioni, vessazioni, incitamento all’odio e violenza fisiche e verbali, contro quello che dovrebbe essere invece il pieno rispetto dei diritti.
Michael O’Flaherty, direttore del FRA, nel 2020 ha dichiarato: «È sorprendente e scioccante il fatto che ancora la maggioranza delle persone LGBTQ+ in tutta Europa non voglia essere vista mano nella mano con un partner dello stesso sesso. Gli schemi della discriminazione, e persino della violenza, sono molto preoccupanti. E inoltre, quasi ovunque, sono molto poche le vittime che denunciano simili episodi alle autorità».
Quello della Commissione europea è un proposito quanto mai auspicabile, ma che tuttavia non viene raccolto da tutti gli Stati membri, che in più casi legiferano arbitrariamente in proposito, dimenticando che in quanto membri dell’Unione europea dovrebbero condividere gli intenti e le politiche della medesima, specie se si tratta di diritti civili.
In questi casi, l’applicazione di politiche in difesa dei diritti della comunità LGBTQ+ è spesso discontinua e disomogenea. Su 27 Stati membri, almeno 14 (quindi più della metà) rientrano nella grande inadempienza al rispetto di questi diritti, con una percentuale di diritti garantiti che va dal 48% (quindi al di sotto della metà) al solo 13%, e sono:
- Polonia (13,7%)
- Romania (18,11%)
- Bulgaria (18,36%)
- Lettonia (21,72%)
- Lituania (23,90%)
- Italia (24,76%)
- Repubblica Ceca (25,76%)
- Ungheria (29,58%)
- Cipro (31,35%)
- Slovacchia (33, 83%)
- Estonia (36,13%)
- Slovenia (42,13%)
- Croazia (44,66%)
- Austria (48,17%)
Allo stato attuale, per una persona LGBTQ+ che vive in Italia è come avere una cesta di 10 arance e poterne mangiare solo 4, anche se per diritto le spetterebbero tutte e 10.
Nonostante alcuni Paesi stiano riuscendo a compiere dei progressi più o meno rapidamente (come Francia e Spagna, le quali sono rispettivamente al 7° e al 10° posto nella classifica dei Paesi che attualmente hanno regolamentato delle leggi a favore dei diritti della comunità LGBTQ+), altri Paesi stanno invece retrocedendo vertiginosamente: atti di violenza omofoba e transfobica e l’incitamento all’odio continuano purtroppo ad essere comuni e all’ordine del giorno.
Quali possibili soluzioni?
In un Paese sessualmente represso, in cui il sesso e la sessualità sono ancora percepiti come un’onta inguaribile e vergognosa, dove la religione è usata come strumento per infierire, umiliare e demonizzare le diversità sessuali, dove dall’alto ci si rifiuta di istituire ore scolastiche dedicate all’educazione all’affettività e alla sessualità, dove c’è chi ancora si auspica di avere un figlio fascista piuttosto che un figlio omosessuale, dove c’è chi ancora equipara l’omosessualità alla pedofilia o a una deviazione sessuale che, essendo contro natura, è da “correggere”, dove per offendere qualcuno gli si dà del “frocio” o della “lesbica”, dove la fiducia nelle autorità è pari a zero quando si tratta di dover denunciare episodi di violenza e discriminazione sulla base del genere e dell’orientamento sessuale, dove non vengono sciolti i partiti di stampo fascista e in Senato il ddl Zan viene seppellito sotto una valanga di applausi...in un Paese come questo, la lotta è ancora lunga e perigliosa. E deve continuare.
Siamo un Paese vecchio. E molti giovani investono nel proprio futuro andando in altri Paesi.
Non si può sperare solo nelle generazioni future.
Bisogna operare dei cambiamenti fin da subito, e i soli cambiamenti possibili non passano dalla becera propaganda dei partiti, progettata a tavolino al solo scopo di ottenere voti e consensi, ma deve entrare a far parte del quotidiano in modo concreto, e non deve diventare strumento per dare profitto ai partiti o alle aziende.
È una lotta, non un mercato.
Non dobbiamo aspettare che sia sempre qualcun altro a dare l’esempio. Per chi ci sta di fronte, anche noi siamo “l’altro” o “l’altra”. Ciascuno di noi può iniziare (o continuare) a fare la differenza, a dare l’esempio.
Il Parlamento europeo ha dichiarato che l’Europa è «una zona di libertà LGBTIQ», e il solo modo per far sì che questo concetto divenga concreto a tutto tondo è attuare a chiare lettere misure ferme e intransigenti sui Governi che mancano di rispettare questi diritti, poiché è chiaro che se da un lato i Governi rimangono granitici o indifferenti, lo Stato civile è vivo e combattivo.
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