Di sicuro non fa piacere a Varsavia e Budapest la recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), emanata in data 16 febbraio 2022, che respinge i ricorsi di questi due Stati Membri contro il regolamento che disciplina l’esborso del soldo europeo al rispetto dello Stato di diritto — regolamento adottato dal Parlamento Europeo (PE) e dal Consiglio Europeo nel dicembre 2020. [1] [2] [3]
Prima di andare avanti, facciamo chiarezza sull’entità di questi finanziamenti: il 17 dicembre 2020 il PE ha approvato il Multiannual Financial Fund (MFF) 2021-2022 che ammonta a ben 1074,3 miliardi di euro per l’UE-27. Inoltre, per far fronte alla crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19, vi è stata un ulteriore integrazione di 750 miliardi di euro (Recovery fund)così suddivisi: 390 miliardi a fondo perduto e 360 miliardi di prestiti. [4]
Il ricorso alla CGUE viene presentato agli inizi del 2021 da Varsavia e Budapest. Secondo loro, il regolamento andava oltre le competenze dell’UE: esso si basa su una precedente risoluzione presentata dal PE nel 2016, ai sensi dell’art. 225 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in cui veniva chiesto alla Commissione Europea di avviare i lavori interistituzionali per la creazione di un “meccanismo globale dell’Unione per la democrazia, lo Stato di diritto e i diritti fondamentali; pertanto con il coinvolgimento del Consiglio Europeo. [5]
La risoluzione del 2016 si tradurrà nel 2020 in un regolamento concepito quale ulteriore freno ad eventuali derive illiberali di alcuni ordinamenti nazionali all’interno dell’UE. Non a caso, la risoluzione veniva depositata in un momento al quanto teso, in seguito alle note vicende legate alle tensioni interne in Polonia tra maggioranza parlamentare, Presidente della Repubblica e Tribunale costituzionale che rischiavano di mettere in discussione i principi contenuti nei Trattati istitutivi dell’Unione. [6]
In particolare, la Polonia e l’Ungheria, sia in passato che oggi, sono state più volte accusate dal PE di non rispettare i valori contenuti all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea (TUE). In cui si stabilisce che “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”. [7]
Questo ha spinto le istituzioni europee ad arricchire il sistema di garanzia dello Stato di diritto nell’Unione, affiancando sia all’art. 7 del TUE che alle procedure di infrazione previste dall’art. 258 del TFUE, con il regolamento del 2020 che si sviluppa proprio sulle risoluzioni Sulla situazione in Polonia (del 13/04/2016) e su quella Sulla situazione in Ungheria (del 10/06/2015). [8]
Il meccanismo prevede, molto brevemente, che l’UE svolga ex-ante un’attività di monitoraggio sulle attività giuridiche e sostanziali degli Stati Membri con l’obiettivo d’intervenire repentinamente per bloccare derive considerate illiberali e lesive dei principi, interpretati estensivamente, di cui l’art. 2 TUE., e in caso congelare i finanziamenti di ogni genere (escludendo però quelli destinati alle associazioni del terzo settore e agli agricoltori). [9]
Visto questo impegno del PE e di altri organi UE per garantire il rispetto dello Stato di diritto nell’UE, non è sorprendente che si sia approfittato dell’approvazione del MFF e del Recovery fund per introdurre il meccanismo capace di spingere gli Stati Membri al rispetto dello Stato di diritto.
Il meccanismo, contestato da Varsavia e Budapest, è stato approvato a seguito di una serrata negoziazione politica tra i cosiddetti Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia) che chiedevano condizioni più rigorose e fondi più stretti per il MFF e Recovery fund. E i Paesi Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) che invece chiedevano una maggiore convergenza sul piano integrato nel nuovo bilancio pluriennale dell’UE per far fronte alla crisi del Covid-19. [10]
Pertanto, per superare queste difficolta, è stato approvato il meccanismo in questione che non si lega solo al Recovery fund — approvato per fare fronte all’attuale crisi economica che attraversa l’Unione — ma a tutto il bilancio pluriennale (il più cospicuo di sempre).
Se già è risaputo che i fondi del Recovery fund non saranno erogati nei casi in cui i diversi piani nazionali di ripresa non siano in linea con gli obiettivi e i principi individuati dall’UE; quello che ha spinto nello specifico Polonia ed Ungheria a fare ricorso alla CGUE è proprio il meccanismo di blocco per chi non rispetta lo Stato di diritto. Infatti, la condizionalità sullo Stato di diritto è stata fortemente opposta dalla Polonia e dall’Ungheria durante l’iter di discussione che d’approvazione in Consiglio. [11]
I motivi dell’opposizione di Varsavia e Budapest sono abbastanza noti al grande pubblico: in questi Paesi i livelli di corruzione sono molto elevati, vi sono tentativi di monopolizzare il potere a livello centrale — facendo così venire a meno il principio della separazione dei poteri —, vengono promulgate norme che ledono i diritti civili (dall’accesso all’aborto alle discriminazioni di genere o in base all’orientamento sessuale) e così via discorrendo. Ovvero ledendo i valori di cui l’art. 2 del TUE.
Questo trend negativo sul rispetto dello Stato di diritto da parte di questi due Paesi viene registrato a partire dal 2010. Una tendenza che è andata sempre peggiorando e che ha spinto la Commissione a sollecitare il Consiglio ad attivare i meccanismi d’allerta di cui dell’art. 7 TUE nei confronti Polonia (2010) ed Ungheria (2018). Però, per par condicio, bisogna anche segnalare che questo trend negativo è stato registrato anche in altri Paesi UE dell’Est (ad esempio Bulgaria e Romania). [12]
Come rilevato dal Rule of Law Index del 2020 sono i Paesi dell’UE Est-europa — in particolar modo Polonia ed Ungheria — ad avere i livelli più bassi di rispetto dello Stato di diritto. Ma quello che sorprende è che essi sono anche i maggiori beneficiari dei fondi UE. [13]
Prendendo l’esempio la Polonia si può scoprire che storicamente è stato uno dei Paesi che ha ricevuto più fondi e prestiti UE rispetto a tutti gli altri Stati Membri: infatti MFF 2021-2027 concederà Varsavia 124 miliardi euro dal bilancio UE e 160 miliardi euro di prestiti; il doppio rispetto al MFF relativo al 2014-2020. [14] [15]
Questo vale anche per l’Ungheria che, assieme ad altri Stati dell’Est e nonostante i suoi introiti interni, è sempre stata in grado di aggiudicarsi grosse fette di denaro dall’erario europeo. Il fatto è che sia Budapest che il suo socio polacco hanno dimostrato negli ultimi anni di non essere tanto inclini a rispettare tutti i principi contenuti all’interno dei Tratti istitutivi. [16]
Per quanto concerne il Recovery fund, la Polonia dovrebbe ricevere 23 miliardi di euro mentre l’Ungheria poco più di 7 miliardi di euro. Questi miliardi, in valore assoluto, sono minori rispetto a quello che riceverà l’Italia: circa 66 miliardi di euro. Ma se si rapporta questi valori ai vari Pil dei Paesi qui interessati si scopre che i miliardi destinati a Roma corrispondono al 3,7% del Pil, mentre quelli per Polonia ed Ungheria corrispondono al 4,3% del Pil nazionale di entrambi. [17]
È chiaro allora il motivo dell’opposizione di questi due Paesi al meccanismo che vincola i fondi del MFF e del Recovery fund al rispetto dello Stato di diritto: essendo detentori di punteggi bassi sul rispetto dello Stato di diritto è quasi scontata la loro esclusione da queste risorse — o almeno così pare.
Ma prima che la CGUE emanasse la sua sentenza sul ricorso, bisogna anche tenere presente che la Polonia nell’ottobre 2021, mediante la propria Corte costituzionale, ha cercato di imporre il primato del diritto polacco su quello europeo per dichiarare illegittimo il meccanismo. [18]
Oltre al fatto che la Corte polacca è accusata di stare al gioco delle autorità nazionali, bisogna rilevare che si sono immediatamente sollevate proteste sia dall’Unione (PE in prima linea) che dai cittadini polacchi. Questi ultimi, però, non hanno protestato tanto perché hanno a buon cuore il primato del diritto europeo, ma piuttosto per la paura di vedere svanire i fondi europei. [19]
Il PE, vista l’intransigenza polacca, ha chiesto alla Commissione di attivare le procedure necessarie a bloccare e in qualche modo condannare il comportamento di Varsavia.
Ma la Presidente Von der Leyen aveva deciso di attendere il verdetto della CGUE per poter verificare, ex-post, la validità dello strumento contestato da Varsavia. Fatto al quanto curioso perché teoricamente, visto il regolamento adottato nel 2020, l’Unione ha il compito di verificare ex-ante il comportamento dei suoi Stati membri, nonché gli strumenti preposti a questo obiettivo.
Infatti, le regole del meccanismo in questione attribuiscono alla Commissione il potere di avviare il congelamento dei fondi UE in caso di gravi rischi allo Stato di diritto in uno degli Stati Membri.
Il meccanismo, in prima battuta, prevede l’avvio di una causa legale contro lo Stato sospettato di aver violato il diritto UE. il Paese può rispondere alla Commissione attraverso lo scambio d’informazioni e cercare di porre rimedio al comportamento illecito.
Nel caso in cui la Commissioni rilevi la persistenza dell’illecito, essa può raccomandare il congelamento dei fondi per lo Stato Membro in questione: decisione che deve essere votata in Consiglio dal 55% dei Paese UE che rappresentato almeno il 65% della popolazione UE. Le misure possono prevedere la sospensione dei pagamenti, la risoluzione degli impegni legali, il rimborso dei prestiti o il divieto di stipulare nuovi accordi finanziari. [20]
Il Paese soggetto a queste misure può svincolarsene se dimostra di aver corretto la situazione considerata illecita. In ogni caso, la procedura può richiedere dai cinque ai nove mesi.
Nonostante tutto ciò, il meccanismo di blocco dei fondi UE non è ancora stato attivato, ma le basi legali per l’avvio ci sono. Oltre ai chiari illeciti sullo Stato di diritto perpetuati da Varsavia e Polonia, la Commissione ha già scambiato diverse lettere con i due Paesi in questione lamentando la situazione creatasi nel tempo. Queste lettere implicano che si stiano ponendo le basi per un procedimento legale.
È chiaro, però, che se attivata la procedura in questione ciò sarebbe un grosso problema per i due Paesi: questo dal momento che solo nel 2020 essi hanno ricevuto 18 miliardi di euro (Polonia) e 6 miliardi di euro (Ungheria), somme che hanno finanziato l’apparato amministrativo di questi ultimi. [21]
Per ora i fondi del Recovery fund rimangono congelati dalla mancanza d’approvazione dei due piani nazionali di ripresa di Varsavia e Budapest. Piani che rischiano ora di essere ancora dilazionati dopo la sentenza della CGUE che dichiara legittimo il meccanismo di congelamento.
Ma a prescindere dai fondi, quello che deve preoccupare Polonia ed Ungheria è il galoppante rischio di essere sottoposti alla procedura d’infrazione di cui l’art. 7 TUE. Se attivato e con esito positivo i due Paesi Est-europei verrebbero privati del diritto di voto sulla politica dell’Unione in Consiglio, [22] che però difficilmente avverrebbe dal momento che è richiesto il voto unanime di tutti gli Stati Membri escluso il Paese accusato. Polonia e Ungheria, chiaramente, si bloccherebbero a vicenda.
In fine, realisticamente è difficile che i fondi dell’UE vengano bloccati a questi due Paesi e che sia attivato l’art. 7 TUE. I motivi si basano sui principi dell’Unione e sulle sue procedure: da una parte l’UE ha sempre abbracciato il principio di mantenere toni pacati con i Paesi più irrequieti. Questo per continuare ad avere la possibilità di tutelare, anche se stentatamente, i cittadini dei singoli Stati Membri che rischierebbero se no di essere lasciati in mano dei singoli governi reticenti.
Dall’altro lato, i procedimenti di tutela e freno di comportamenti illeciti ed illiberali sono sottoposti al metodo intergovernativo: cioè al voto dell’unanimità. Ed è più scontato che, avendo diverse intese tra gli Stati Membri, ogni Paese potrà sempre contare sul voto di veto di almeno un’altra Nazione vicina per tutelarsi.
Questi due aspetti sono chiaramente un impedimento per un’azione concreta dell’Unione (specialmente del PE e della Commissione). Anche se la CGUE ha dato torto ai ricorsi di Polonia ed Ungheria, il verdetto rischia di rimanere lettera morta.
Anche se positiva per il diritto europeo, essa è destinata probabilmente a piegarsi al sistema intergovernativo dell’UE.
È chiaro che l’Unione — o meglio i suoi Stati che caldeggiano per un Unione più politica e decisa — si trova dinanzi a un bivio: o sopperire per l’ennesima volta al sistema intergovernativo o farsi carico della grande sfida di passare ad un sistema più fermo che punisca concretamente gli Stati Membri filibustieri.
E i comportamenti di Varsavia e Budapest (assieme ad altri Paesi proveniente dall’Est-Europa) assieme al verdetto della CGUE sono un chiaro sintomo di una situazione di stallo nell’Unione che non è in grado — o non volente — di andare oltre il suo framework intergovernativo. Questo chiaramente per colpa degli Stati Membri.
Alla fine dei conti, è risaputo che nessuna unione o alleanza è destinata a soddisfare tutti i partecipanti e che nemmeno i comportamenti lassisti siano cosa buona per poter avanzare positivamente. Pertanto, è più che auspicabile che vi sia una netta sterzata dell’Unione rispetto ai comportamenti accondiscendenti verso i Paesi dell’Est che hanno a lungo approfittato di questa situazione per trarre solo un beneficio economico. Senza però dare in ritorno comportamenti in linea con i valori ed obiettivi dell’UE.
Perché nessuno potrà ambire ad un Unione vera e propria se non si ha il coraggio di punire coloro che deridono i valori dell’UE, con il risultato di dare l’impressione di una UE debole dinanzi le sue sfide interne.
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