Scenari futuri dell’unione: andare oltre la riforma dei Trattati?

, di Paolo De Gregori

Scenari futuri dell'unione: andare oltre la riforma dei Trattati?
Archiwum Kancelarii Prezydenta RP (GFDL 1.2 <https://gnu.org/licenses/old-licens...> or GFDL 1.2 <http://www.gnu.org/licenses/old-lic...> ), via Wikimedia Commons

Avvicinandoci al 9 maggio, osserviamo gli scenari futuri della nostra Unione europea, a partire da quella istituzionale. L’Europa si è fatta nelle crisi e le molteplici crisi che stiamo vivendo oggi, per europeisti e federalisti, dovrebbero essere di stimolo per un ulteriore passo avanti nel processo di integrazione. Tuttavia, un po’ per mancanza di volontà, un po’ per pressioni nazionali, questa prospettiva è sempre meno nitida.

Se ci interroghiamo sui possibili futuri scenari in Europa, gli avvenimenti geopolitici degli ultimi anni ci possono offrire diversi spunti di riflessione, e possono rappresentare uno spartiacque all’interno del sistema politico dell’Unione. La storia ci insegna che di solito sono i momenti di crisi che portano a una maggiore integrazione, e attualmente si può dire che stiamo attraversando molteplici criticità: crisi sanitarie, umanitarie, economiche e finanziarie.

A seguito della pandemia da COVID-19, la Commissione europea è riuscita a varare il Next Generation EU, convincendo anche i c.d. Paesi frugali a emanare del debito comune, riuscendo a garantire così dei tassi di interesse molto bassi. Si tratta di un’operazione finanziaria mai vista prima, e può effettivamente rappresentare l’incipit di una maggiore integrazione in ambito economico e finanziario. Il successo o meno di questa iniziativa, però, dipende molto dal risultato concreto che riusciranno a ottenere i singoli Stati dai fondi ricevuti. In questo senso, l’Italia è un’osservata speciale, in quanto ha ricevuto la quota più consistente di aiuti. C’è da dire che le ultime dichiarazioni del Governo non fanno ben sperare…

In ogni caso, non è detto che le crisi che stiamo vivendo portino a un’ulteriore integrazione politica. C’è il rischio concreto che succeda l’opposto. Alcuni Stati membri potrebbero essere più propensi a proteggere i propri interessi nazionali, e la situazione attuale potrebbe esacerbare le tensioni preesistenti tra i membri dell’Unione europea, come sta accadendo per quanto riguarda le sanzioni alla Russia e gli aiuti militari all’Ucraina. Questo potrebbe portare a una maggiore disintegrazione dell’Unione, con un ritorno ad un’Europa dei confini nazionali. Ciò è dovuto soprattutto dal fatto che molti partiti populisti, nazionalisti e euroscettici stanno occupando ruoli di governo in molti Paesi, e in generale stanno acquisendo sempre più consenso in tutta l’Unione.

Le elezioni del Parlamento Europeo nel 2024 potranno confermare o smentire questa tendenza, e a mio avviso saranno fondamentali per capire la possibilità reale di una maggiore integrazione. Questo perché, se neanche il Parlamento dovesse spingere per una maggiore unità, non saranno certo gli Stati a dare l’impulso iniziale. Durante quest’ultima legislatura il Parlamento è stato, insieme alla Commissione, l’unica istituzione a spingere per una maggiore integrazione. Non c’è da stupirsi se a Strasburgo hanno chiesto molteplici volte un aumento di poteri, visto che si tratta dell’unico organo eletto a non avere potere di iniziativa legislativa. Ma questa è solo la punta di un iceberg dei problemi che caratterizzano l’attuale UE, che soprattutto in questo anno di guerra in Ucraina sono diventati evidenti anche alla società civile (mentre noi federalisti possiamo dire di aver espresso la necessità di una vera Europa federale già in tempi non sospetti).

Proprio alla luce dell’importanza delle prossime europee, come militanti e attivisti abbiamo il compito di difendere a ogni occasione gli ideali di unità, pace e fratellanza, che sono messi in crisi da quest’ondata sovranista. Insieme a questo, poi, penso sia necessario fare un bagno di realismo e cercare di trovare un compromesso con le forze politiche con cui bisogna dialogare, altrimenti si rischia che le nostre idee non vengano neanche prese in considerazione.

Guardiamo ad esempio la Conferenza sul futuro dell’Europa, vista da molti come un successo. Osservandola con uno sguardo neutrale, l’unico aspetto positivo è il fatto che la piattaforma ha rappresentato un importante momento di democrazia partecipativa. Ma se guardiamo i risultati raggiunti, c’è poco da festeggiare. Innanzitutto, le proposte sulla piattaforma sono state sottoscritte da poco più di 50 mila cittadini europei (lo 0,01% della popolazione totale complessiva), e le varie attività organizzate non hanno raggiunto neanche il milione di partecipanti. Infine, per quanto riguarda la risposta del Consiglio, dire che è stata deludente è un eufemismo. Si è formato un fronte di 13 Paesi (Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia e Svezia) che mettono in discussione i risultati della Conferenza. “Abbiamo già un’Europa che funziona. Non abbiamo bisogno di precipitarci in riforme istituzionali per ottenere risultati”, è stata la risposta conclusiva.

Chiaramente questi due aspetti dimostrano mancanza di volontà politica e di volontà popolare. Come procedere quindi in futuro? Cosa si prospetta per il vecchio continente?

Per quanto riguarda il possibile scenario futuro, realisticamente parlando è molto probabile che l’Unione Europea nella prossima legislatura si focalizzi prevalentemente sul rafforzamento del mercato unico. Ci sono già dei progressi significativi in questo senso, come ad esempio l’European Critical Raw Materials Act o la piattaforma europea per gli acquisti comuni di gas, Gnl e idrogeno. Lo sviluppo di queste politiche, poi, potrebbe portare di conseguenza l’UE a dotarsi di risorse proprie, arrivando quindi ad un embrione di politica fiscale. Una volta raggiunta la possibilità di avere un bilancio autonomo, non più basato sulla volontarietà dei singoli Stati ma su vere e proprie risorse sovranazionali, si potrà pensare anche a un esercito comune.

Naturalmente questo sarà un processo lungo, e basato principalmente su una logica neo-funzionalista, in cui gioca un ruolo fondamentale il meccanismo dello spillover, che è “quel processo automatico che rende possibile il graduale incremento qualitativo e quantitativo dell’integrazione, mediante l’espansione degli originari settori funzionali (tecnici), fino a investire il campo politico” (Papisca).

Attualmente, infatti, manca una volontà comune di agire insieme in ambiti quali la sicurezza o la difesa, anche grazie al (o meglio, a causa del) rafforzamento della NATO. Quindi, per arrivare ad avere una politica fiscale e un esercito comune (la borsa e la spada, le gambe che sostengono ogni Stato) si passerà prima per una maggiore integrazione del mercato unico, con una vera politica industriale. A meno che ci sia una grande riscoperta collettiva del pensiero federalista da parte dei politici e dirigenti di partito, cosa comunque altamente improbabile.

Per riassumere, a mio avviso la riforma dei trattati e la convocazione di una Convenzione ai sensi dell’articolo 48 del Trattato sull’Unione Europea, più che un sogno, allo stato attuale è un’utopia. Viviamo in un periodo di crescenti divisioni interne, e se è vero che le crisi hanno sempre portato a un’integrazione maggiore, è altrettanto vero che questa è una variabile necessaria, ma non l’unica. Servono anche grandi statisti (e non semplicemente politici), con una visione lungimirante e un’ideale federale ben radicato nel loro bagaglio culturale. Detto questo, non bisogna certo rassegnarsi a un’Europa divisa! Altre soluzioni esistono, e sono certamente più fattibili di una modifica radicale dei Trattati attuali. Nel concreto, ci sono due strumenti che permetterebbero di avviare un processo di integrazione senza toccare i trattati. Il primo riguarda le clausole passerella, che consentirebbero di passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, e che potrebbero eliminare le procedure legislative speciali (quando il Parlamento non ha potere codecisionale). Il secondo è quello delle cooperazioni rafforzate, per le quali alcuni Stati membri ambiscono a fare di più in comune. Possono quindi emergere una o più “coalizioni dei volenterosi" che operano in comune in ambiti specifici quali la difesa, la sicurezza interna, la fiscalità o le questioni sociali. Si tratterebbe di creare un’Unione “a geometria variabile”. Del resto, tutta la storia dell’integrazione giuridica europea nasce dalla propulsione di un gruppo ristretto di Stati che decidono di prendere l’iniziativa e di “dare l’esempio”.

La lotta per un’Unione federale non deve mai fermarsi, e deve partire anche dal basso per cercare di educare le nuove generazioni. Forse, però, è arrivato il momento di essere consapevoli che nei prossimi anni ciò non potrà avvenire in maniera radicale, con una riforma dei trattati, e bisogna quindi cercare altre vie per arrivare fino in fondo al più grande progetto politico di pace: la costituzione degli Stati Uniti d’Europa.

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