Il Piano di Ursula von der Leyen, ReArm Europe (ora Readiness2030), sia per l’infelice denominazione sia per il contenuto della proposta - in gran parte, però, strumentalizzato - ha incanalato in una direzione sbagliata il dibattito sulla difesa europea. Sono così state messe in ombra due implicazioni, tra loro collegate, del Piano:
- la necessità che l’Europa provveda da sé, senza dipendere da altri, a fornire un servizio pubblico europeo essenziale: la sicurezza dei cittadini europei;
- il fatto che una difesa autonoma consente all’UE di essere credibile nel perseguire una politica di rafforzamento delle Istituzioni multilaterali, oggi messe in discussione proprio dal paese che le ha volute alla fine della Seconda guerra mondiale.
Praticamente tutti gli analisti sono concordi nel sostenere che l’unica comunità politica che può perseguire, se non altro per interesse, una politica di sostegno delle Istituzioni multilaterali e, più in generale, rapporti internazionali fondati su regole comuni, sia l’Unione europea (si veda, ad esempio, S. Biscop, This is not a new world order, 2024). Si tratta, peraltro, di una politica ribadita nel corso dell’ultimo Consiglio europeo.
La politica di rafforzamento, sul piano militare, dell’UE va quindi vista in questa prospettiva: rendere credibile l’Unione nel perseguire una politica di rapporti mondiali fondata sul rispetto di regole comuni, attraverso le esistenti Istituzioni multilaterali o con la creazione di nuove Istituzioni. Se l’UE non è in grado di presentarsi sulla scena mondiale come una comunità politica in grado di provvedere da sé alla propria sicurezza, non avrebbe la necessaria autorevolezza. Un mondo fondato su regole comuni è quindi l’obiettivo, e un’autonoma difesa europea è lo strumento per perseguirlo.
Il Piano Readiness2030, come noto, prevede investimenti complessivi di 800 miliardi di euro, di cui 650 derivanti dalla flessibilità del Patto di Stabilità e Crescita, al fine di consentire agli Stati membri di aumentare le spese nazionali per la difesa dal 2% al 3,5% del PIL, e 150 miliardi finanziati con un prestito europeo. Il Consiglio europeo del 20 marzo scorso non ha sciolto il nodo della modalità di emissione del prestito europeo. Si sta riflettendo su un ventaglio di possibilità, tra cui anche l’art. 122 TFUE, lo stesso che ha consentito di emettere il prestito europeo per far fronte alla crisi sanitaria.
L’iniziale infelice denominazione del Piano e la sua dimensione hanno fin da subito provocato una reazione di rigetto. In particolare, è stato criticato il fatto che:
- non sono previsti investimenti per una vera e propria difesa europea;
- la quota prevalente dei finanziamenti va alle spese per la difesa a livello nazionale;
- non sono previsti investimenti per piattaforme militari comuni tra i Paesi europei;
- le risorse destinate al settore militare vengono sottratte alla fornitura di altri beni pubblici.
Per quanto riguarda la prima critica, va da sé che una difesa europea, fondata su autonome forze armate europee, non si istituisce nell’arco di una notte, soprattutto se il modello di difesa dovesse essere quello di uno Stato unitario e, quindi, fondato su un unico esercito centralizzato a livello europeo. Questa, però, non è una strada politicamente perseguibile.
L’Europa si farà nella misura in cui i problemi che dovrà affrontare saranno risolti rivolgendosi al modello di una federazione e non a quello di uno Stato unitario. Quindi, anche il modello di difesa dovrà essere federale e pertanto basato su forze armate nazionali e forze armate europee, dove le prime - per un lungo periodo di tempo - prevarranno sulle seconde. Del resto, così è stato anche per l’esperienza americana, dove, per circa 150 anni, le milizie statali sono prevalse sull’esercito federale.
Detto in altri termini, come nella proposta avanzata nel 2020 da alcuni deputati della SPD tedesca, si tratterebbe di istituire quello che è stato chiamato il 28° esercito, che si affiancherebbe ai 27 eserciti nazionali. Non è quindi sbagliato prevedere che la maggior parte - se non la totalità, in assenza di una vera difesa europea - degli investimenti nella difesa sia eseguita a livello nazionale.
La quota dei 150 miliardi derivanti dal prestito europeo sarà destinata a finanziare prevalentemente, se non esclusivamente, piattaforme militari comuni a più paesi europei e, in particolare, quei sistemi d’arma di cui l’UE oggi manca e per i quali deve ricorrere al sostegno americano. È per questo che il Piano prevede che l’Agenzia Europea per la Difesa, assieme all’Alto Rappresentante e alla Commissione, attivi le necessarie procedure affinché gli Stati procedano all’acquisto di piattaforme militari comuni.
Quindi, la critica rivolta al Piano non pare del tutto fondata, anche se, affinché l’AED possa svolgere il suo ruolo con efficacia, occorrerà che le procedure previste dal Capability Development Plan e dalla Coordinated Annual Review on Defence siano rese vincolanti.
Ammesso - e non concesso - che fosse giusto criticare il Piano von der Leyen perché incentiva investimenti a livello nazionale e non europeo, sarebbe stato logico aspettarsi che alle critiche seguissero proposte concrete su come destinare una parte dei finanziamenti a una vera difesa comune europea. Le proposte, però, non ci sono state, e credo che debba essere questo il vuoto da colmare.
Secondo i federalisti, i Trattati esistenti consentono di decidere, a maggioranza qualificata, l’istituzione di una forza multinazionale europea tra un gruppo di paesi disponibili. È quanto prevede l’art. 46.2 TUE. Si tratta quindi di promuovere una politica in questo senso, mobilitando i partiti e i parlamenti nazionali dei paesi disponibili e il Parlamento europeo. Questa sarebbe stata una critica efficace al Piano di von der Leyen e al Governo italiano, perché formulata in una prospettiva costruttiva europea. Va da sé che questa non sarebbe ancora la difesa europea, ma certamente il passo decisivo in quella direzione.
L’ultima critica cui rispondere riguarda la tesi secondo cui le risorse destinate al finanziamento delle spese per la difesa sarebbero sottratte, in tutto o in parte, alle spese destinate al welfare, come la sanità e altro. Questo non è necessariamente vero. L’indicazione l’ha data qualche mese fa la segretaria del PD, Elly Schlein, quando ha proposto di istituire un’imposta europea sui patrimoni delle famiglie europee più ricche.
Credo che questa proposta debba essere rilanciata. Secondo uno studio di Eutax Observatory (Resources for a Safe and Resilient Europe, 2025), un’imposta del 2% sulle famiglie con un patrimonio superiore ai 100 milioni di euro fornirebbe un gettito annuo di 67 miliardi: risorse più che sufficienti a garantire il rimborso di un prestito ben superiore ai 150 miliardi previsti e che potrebbero anche alleggerire la spesa militare a livello nazionale.
Tenuto conto che la redditività media del patrimonio di queste famiglie, nell’arco degli ultimi quarant’anni, è stata pari al 7% al netto dell’inflazione (quindi grosso modo pari al 9-10% in termini nominali, che è poi la base imponibile dell’imposta), si tratterebbe di un carico fiscale del tutto sostenibile.
Non è immaginabile che, per un partito progressista, si voglia, da un lato, difendere (giustamente) il welfare e, dall’altro, difendere - di fatto - la rendita delle famiglie più ricche, rinunciando a fornire un servizio pubblico europeo essenziale come la sicurezza dei cittadini europei.
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