Siamo tutti antimperialisti con gli imperi degli altri

Si parla oggi di imperialismo, di imperialismi e di come spesso il proprio imperialismo sia invisibile

, di Davide Emanuele Iannace

Siamo tutti antimperialisti con gli imperi degli altri

Questo articolo deve iniziare con un disclaimer importante: qualcuno si sentirà offeso da quanto sarà scritto qui, qualcuno sentirà che i suoi ideali potrebbero essere attaccati, qualcuno potrebbe trovarli spaventosamente offensivi, in alcuni termini. Non è intenzione offendere nessuna posizione politica con questo pezzo, ma temo che un certo grado di irruenza sarà necessaria per arrivare al nocciolo della questione

Iniziamo con una piccola premessa storica. Circa qualche secolo prima della nascita di Cristo, in una terra leggermente più a occidente della Palestina, si combatteva un furioso conflitto che si era andato espandendo nel corso dei decenni tra quelle che, in alcuni casi, sono state considerate le super-potenze del Mediterraneo occidentale: Cartagine e Roma.

Non scendiamo nel dettaglio di come il conflitto tra le due parti si sia andato estendendo nel corso degli anni, delle battute d’arresto di una o dell’altra parte, del ruolo sempre più importante di fazioni “minori”, come i numidi, come la città di Siracusa, le colonie greche ancora presenti nell’area, il ruolo stesso dei mercenari e delle città elleniche.

Le tre guerre puniche furono un esempio di guerra che fu a modo suo prima ibrida e poi terribilmente reale per le due fazioni in campo, tre conflitti – in particolare il secondo – che avrebbero potuto drasticamente cambiare la geografia e la storia umana così come la conosciamo. Punto focale delle guerre puniche è che le definiamo puniche perché le abbiamo lette tramite gli occhi del popolo vincitore, i romani. La guerra può essere riassunta con una semplice affermazione: Carthago delenda est.

Romani e cartaginesi rappresentavano, per la loro epoca, due mondi in diretto contrasto tra di loro, due mondi basati su ideologie, aspetti politici ed economici della vita comune e culture radicalmente diverse. Erano riusciti a convivere per un certo tempo, fino al punto però in cui le necessità dell’una e dell’altra parte, in termini di sicurezza, di approvvigionamento di risorse, della creazione di una stabile rete anche a modo suo nazionale, non le fecero entrare in diretta competizione dalle sponde della Sicilia fino a quelle dell’Iberia.

L’escalation di ambo le parti, letta all’interno di una sfida per la propria sopravvivenza, spinse le due parti a confrontarsi non solo con la guerra, ma con il rischio della fine del proprio modus vivendi e della propria esistenza. Sappiamo come la guerra terminò tra alti e bassi con la cancellazione dalle mappe di Cartagine, ultima reminiscenza del mondo fenicio, a cui seguì una sua rifondazione come città romana, ultimo simbolo della completa assimilazione del territorio una volta detenuto dal più letale dei rivali della città laziale.

Le tre guerre puniche hanno avuto un ruolo rilevante nel plasmare la Roma repubblicana e la conseguente Roma imperiale per come poi l’abbiamo tutti conosciuta nei libri di storia. Non c’è modo migliore che presentando proprio la caduta di Cartagine per aprire questo spazio di discussione su un tema caldissimo del dibattito contemporaneo: l’anti-imperialismo.

Una delle lezioni apprese da questo conflitto è che un nemico disarmato è, tendenzialmente, un nemico impotente e che farà errori per difendere la sua esistenza. Alla fine del secondo conflitto, dopo la disfatta di Annibale a Zama e le forze romane fuori dai cancelli di Cartagine, le condizioni imposte a Cartagine furono sia umilianti che molto tese a eliminare nella città qualsiasi possibile fonte di minaccia per Roma, i suoi alleati e le sue colonie. La flotta fu disarmata, le difese della città smontate, le armi sciolte. Quando, fin quasi da subito, popolazioni come i numidi iniziarono a far sentire la propria pressione su ciò che teoricamente spettava a una Cartagine oramai incapace di difendere i propri possedimenti, i cartaginesi si trovarono nella condizione impossibile di dover scegliere se riarmarsi – innescando la base per un nuovo conflitto con Roma, che l’avrebbe percepita come una violazione dei trattati al di là della minaccia che ciò avrebbe comportato o meno per la penisola italiana – e semplicemente lasciare che i propri nemici distruggessero un pezzo alla volta ciò che rimaneva della città-stato. Scelsero di difendersi. Furono annientati e la loro città fu cosparsa di sale, almeno così vuole la leggenda.

È un sunto questo, di una condizione che è più complessa di così. Cartagine rappresentava una unità un po’ unica nel panorama storico, una città-colonia relativamente poco importante che ascese al ruolo di grande potenza marittima e commerciale, sorretta da famiglie nobili che non furono sempre capaci di leggere la storia e ciò che le circondava, che commisero gravi errori e che non considerarono il mondo che andava cambiando. Una cosa facile da dire, sedendo sulla polvere di un conflitto vecchio di due millenni e qualche secolo.

Certo, non che i conflitti tra super-potenze siano cessati dopo questo, ovviamente. La Macedonia di Alessandro era poco più a Oriente di Cartagine e Roma, mentre il giovane re tentava di sfidare il mondo e conquistare il suo posto glorioso tra gli Dei. O anche la stessa Roma che impose pian piano il dominio sul creato Mediterraneo. E poi ancora regni e imperi come quello cinese, indiano, quello arabo che conquistò poco alla volta con un mix di spada e fede uno spazio tra tre continenti, Carlo V, i britannici di Vittoria, i sovietici e gli americani. La Terra ha vissuto un susseguirsi di imperi, di regni, più o meno lunghi, più o meno capaci di sorreggersi nella loro esistenza tramite stampelle che potevano essere un tremendo potere politico, una macchina da guerra incredibilmente vasta e/o organizzata, una capacità economica fuori dal comune, un soft power culturale o religioso imponente.

Non che ora ci metteremo a studiare ogni singolo impero ecco. Ci limiteremo, partendo dall’esempio citato, a parlare del mondo contemporaneo, del mondo che viviamo oggi, un mondo dove gli imperi sono, in teoria, almeno tre: quello cinese, quello americano e quello russo. Per quanto gran parte della sfera intellettuale, specialmente – e dispiace dirlo – quella a sinistra, tenda a dimenticarlo, il mondo non è un monopolio dell’Occidente. Non lo diciamo né con sconforto né con felicità. Lo è stato, per un periodo di tempo. Non così largo come lo si vuole pensare. Sicuramente, l’Europa ha avuto una sua grandissima rilevanza a cavallo del XIX e XX secolo, per poi vedere il proprio modus vivendi dominato da un’altra potenza, gli Stati Uniti, che hanno però condiviso il potere globale con un’altra grande potenza, l’URSS. Una potenza non meno aggressiva, non meno capace di destabilizzare piccole e grandi nazioni, non senza una precisa agenda.

Una nazione che è stata eletta, ironia vuole, paladina dell’anti-imperialismo da chi leggeva negli States e nei suoi soci – le nazioni europee – le radici fondamentali del male, senza che effettivamente si leggesse nell’altro lato quella stessa agenda geopolitica che sfruttando ideali politici quali socialismo e comunismo mirava semplicemente allo stesso dominio che l’altra parte sperava di imporre con colpi di stato e capitalismo. Due super-potenze globali, con aree di interesse, capacità di colpire e di essere colpite. Due super-potenze di cui una godeva di una storia più corta, gli USA, mentre l’altra aveva al suo centro le radici storiche di un impero, quello zarista, che non era nuovo a tentativi di egemonia semi-globale.

Il mondo contemporaneo è erede di quelle tendenze che abbiamo visto nel secolo XX. Erede, ma non copia, perché un attore terzo si è andato imponendo nella scena, quell’altro impero, quello cinese, che non è mai stato marginale nella storia. Un impero che, tra alti e bassi, ha vissuto per quattro millenni e ancora vive nella forma di una Repubblica Popolare. Cambia il nome, ma non la radice tanto espansionista quanto monopolizzante del potere di Pechino. Un potere che mira ai suoi vicini – in particolare il Sud-Est asiatico che da decenni vive le pressioni del gigantesco vicino – e che mira all’indebolimento di quell’altra super-potenza presente nell’Oceano Pacifico, cioè sempre gli Stati Uniti.

Una sfida dalle grandi ripercussioni anche sull’Europa, e che ci offre spunti di riflessione. Innanzitutto, viene naturale chiedersi perché venga spesso considerato imperialismo quello che gli USA hanno effettuato nella loro proiezione globale, ma non quello che Russia e Cina a loro volta esercitano tanto con i propri vicini, che non. Prendiamo la Russia di Putin, l’uomo che ha tentato di riportare il potere moscovita nelle scacchiere globali – di cui l’esito, ovviamente, sarà questione di analisi per i nostri successori in una generazione o due.

La Russia di Putin è quella che ha riportato ordine in Cecenia, e una figura vicinissima al Cremlino – Ramzan Kadyrov – al potere. Certo, tra militanti islamisti radicali e Kadyrov la scelta non è sempre stata felice, ma al di là di chi ha preso il potere, conta che la Russia non ha avuto remore nell’usare il suo potere per rimettere la Repubblica cecena esattamente al suo posto: nell’orbita russa. Georgia, 2008, è un altro esempio di come Mosca sia velocissima a prendere contromisure quando sente che il suo pugno si stia allentando su un Paese che percepisce come necessario alla sua sicurezza, sicurezza che non è nazionale, ma imperiale.

Ancora più lampante è stata la costruzione di un potere più invisibile, basato sulla manipolazione di news e di informazioni, sul finanziamento di partiti – pratica già nota ai gerarchi dell’URSS fin da prima del Secondo Conflitto mondiale – per stimolare dissenso e posizionamenti favorevoli alla Russia e a quelle che sono vendute come le posizioni giuste e ragionevoli di uno stato aggredito dalla potente e letale NATO. Verrebbe da chiedersi se non sia la sicurezza di un impero a rischio nel momento in cui nazioni della sua sfera tentano di defilarsi, come ha fatto l’Ucraina nel 2014, pagando un prezzo ancora oggi attuale. E viene naturale pensare che chi legge nelle missioni americane in Africa anti-ISIS e anti- Al-Qāʿida un input imperiale e nelle missioni russe in Siria invece uno spirito umanitario non sia forse o in cattiva fede o tendenzialmente cieco.

Non che si voglia gridare al mostro nell’armadio. Non siamo qui a dire che gli USA sono il bene, il poliziotto buono del pianeta, e i russi il terribile Minotauro pronto a uccidere qualsiasi eroe si avventuri nel labirinto. No, vogliamo mettere in luce che tanto la Russia che gli Stati Uniti che anche la Cina, hanno ambizioni che ricadono in quello che comunemente viene definito imperialismo. Non sono nazioni che aspirano semplicemente a garantirsi il loro posto nel mondo, che le risorse fluiscano e che la pace regni al proprio interno. Sono nazioni che aspirano a mantenere una presenza ben al di là dei propri confini, che fanno proprio un potere i cui tentacoli si allungano ben al di là dei propri confini geografici. Potenze come queste sono sempre esistite. Lo è stata Roma, lo è stata la Macedonia di Alessandro, lo fu l’impero Ottomano, e poi l’impero britannico. Cambia il modus operandi del dominio. Cambia la radice ora religiosa e ora economica, ora comunista, ora capitalista, ora neoliberista.

Il grande problema della lettura che viene fatta ultimamente dello scenario geopolitico è questo voler tendere il dito contro una sola delle tre costellazioni imperiali, quella americana. Fin troppo spesso intellettuali o sedicenti tali costruiscono il proprio discorso intorno alla potenza imperiale americana, quella dei suoi alleati, e ricostruiscono un discorso antimperialista che finisce per diventare il supporto a un altro discorso imperiale. Un discorso che, dinanzi il mancato riconoscimento della presenza di un avversario, finisce per indebolire anche la costruzione di una potenziale difesa.

Perché, alla fine dei conti, tutto si riconduce al come si vuole affrontare quella che è la sfida del mondo contemporaneo. Guardiamo per esempio all’invasione militare russa ai danni dell’Ucraina. Ora come ora, Mosca può anche vendere all’opinione pubblica la sua idea di mediazione, ma è ben chiaro che lo scopo è, e sempre sarà, da parte russa, quella di riprendere una nazione percepita come parte di una sfera imperiale che è sfuggita all’orbita e che deve quindi, con forza, essere riportata al suo stato percepito come “naturale”.

Il caso ucraino offre perfettamente il caso esempio. Si può scegliere se supportare una nazione aggredita da parte del suo vicino, o lasciare che l’impero riprenda quello che percepisce come il suo diritto di esistenza. Lo si può anche con la costruzione di una contro-narrativa a quella russa della nazione aggredita e vittima del complotto americano-europeo. Lo si può anche, e soprattutto, abbandonando la fantomatica pace a tutti i costi, costi che, casualmente, sono tendenzialmente a spese altrui.

Il punto è che siamo tutti antimperialisti quando l’impero è un altro, quando è il nemico. Il nemico non può essere un impero, deve sottomettersi al nostro impero – reale o ideologico – che sia territorialmente inglobante di altre realtà o che si attesti su un potere sottile, invisibile. Ma a volte il velo si rompe, gli imperi ricompaiono sulla scena, invadono e attaccano; è successo nel 2003, è successo nel 2004, succede nel 2022, succederà in futuro.

La soluzione è non quella che vorreste sentire. La soluzione è resistere. Che vuol dire assumere un proprio posizionamento, far proprie delle idee che sono legate a un certo sotto-strato culturale e ideologico e dirsi “Queste sono le basi della mia realtà”. Un sistema liberale, ad esempio, che dia a tutti la libertà di esprimere la propria esistenza liberamente, è un concetto che potremmo definire cuore della concezione che abbiamo oggi di Europa e di europei. Un sistema che, basato su quei principi milliani e dei successori di libertà individuale, che non vada mai a discapito della individualità e libertà altrui, merita di essere difeso.

Difesa che, mi dispiace, passa anche per la costruzione di armamentari e di eserciti che possano reggere la sfida. I discorsi sulla rinnovata difesa europea, i nuovi stimoli, le nuove provocazioni e anche i nuovi input, sono parte sicuramente di un ripensamento del mondo. Il mondo non è un posto sicuro, non lo è mai stato per davvero, ma è facile pensare che vi sia pace quando l’Europa occidentale non conosce conflitti da 70 anni tranne i propri terroristi interni.

È facile dimenticare che le tre superpotenze non hanno remore a eliminare i propri nemici con qualsiasi mezzo, anche militare, per imporre la propria visione del mondo. Ed è bene ricordarsi che essere pronti a combattere non vuol dire voler combattere. Vuol dire rendere la guerra per il nemico abbastanza costosa da fargli preferire la pace. Il principio della deterrenza nucleare è un’evoluzione dell’idea che due eserciti particolarmente armati con i mezzi del XXI secolo possono fare una quantità considerevole di danni anche senza l’uso dell’energia atomica.

L’Europa ha bisogno di riscoprire la sua natura militare, non militaresca. Ha bisogno di scoprire che le nazioni europee hanno costruito qualcosa di unico tra di loro, ma quel qualcosa che si ancora a dei valori fondamentalmente tesi alla pace va difeso da chi in quegli ideali non si riconosce e non si vuol riconoscere, e che anzi li riconosce come ostili e nemici. Per una potenza imperiale, i valori europei sono una minaccia.

Riconoscerlo non vuol dire diventare imperiali(isti) a propria volta, non vuol dire lanciare crociate e campagne di conquiste come se non esistesse un domani. Vuol dire semplicemente essere pronti a far scendere a trattative chi a trattative ci scende solo quando non ha altre scelte, tipo Putin. L’Ucraina rappresenta l’esempio perfetto dell’attitudine russa a trattare solo finché lo fa con lo scettro della potenza in mano, per poi passare alla spada non appena ritrova nell’altro il diniego delle sue prepotenze. Sì, potreste tranquillamente dire “Ma anche gli americani hanno fatto così”, e questo confermerebbe che applicare un approccio antimperiale agli USA necessita di una sua applicazione anche ai nostri vicini vicino orientali e più lontani orientali.

Personalmente, prendo particolarmente con favore l’idea di un’Europa molto ben armata, di un’Europa che possa difendersi non dalle minacce fantasmi di immigrati e potenti lobby LGBTQ+ come pensa qualche esponente di estrema destra, ma da quei poteri davvero reali che risiedono al Cremlino e anche nella Casa Bianca e a Pechino e che vivono la realtà come una scacchiera enorme su cui giocare il proprio grande gioco. Non che dobbiamo giocare allo stesso gioco, ma avere la capacità di difenderci nel momento in cui vogliamo defilarci, questo è necessario.

La capacità di difendersi non vuol dire essere militaristi, non vuol dire voler imporre il proprio punto di vista su tutto ciò che ci circonda. Vuol dire però essere capaci di dire a qualcuno “No, questa è la linea che non supererai” quando questa finisce per minare il nostro modo di vivere, che merita di essere difeso, che ha la sua dignità, il suo diritto di esistere. Non bisogna permettere di renderci come Cartagine e, in nome della difesa di qualcun altro, smantellare il nostro apparato difensivo e militare al punto da diventare inermi da tutti gli altri imperi. Il mondo non è un posto pacifico, sapersi difendere non è un atto aggressivo, vuol dire rendersi capaci di sopravvivere.

E chi vi dice il contrario, tendenzialmente spera nella vostra sparizione dalle mappe globali, in un modo o nell’altro. Non c’è dignità nel vedere la propria realtà sparire per volontà altrui. Non è un atto di coraggio, ma solo l’ammissione della superiorità militare di qualcun altro. Questo dobbiamo ricordarlo.

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