THE TRAGEDY OF THE HORIZON

, di Domenico Moro

THE TRAGEDY OF THE HORIZON

L’espressione The tragedy of the horizon (La tragedia dell’orizzonte decisionale) è stata utilizzata dal governatore della Banca d’Inghilterra (BoE), Mark Carney, nel corso di una lecture ai Lloyd’s di Londra, nel 2015, dedicata alle conseguenze del cambiamento climatico sul comportamento degli operatori economici, nel caso specifico delle assicurazioni. Queste ultime hanno visto aumentare il rimborso dei danni causati dai cambiamenti climatici da una media annua di 10 miliardi di dollari negli anni ’80 del secolo scorso, a 50 miliardi annui nell’ultimo decennio. Secondo Carney, il pur considerevole aumento del valore dei danni rischia di impallidire rispetto a quanto può accadere nei prossimi anni. Ma allora, si chiede, perché non si prova a fare di più per rimediare a questi rischi?

Carney identifica il problema nel fatto che gli impatti catastrofici del cambiamento climatico si verificheranno al di là dei tipici orizzonti decisionali della maggior parte degli attori economici e politici, con la conseguenza di imporre un costo alle future generazioni che quella attuale non ha alcun incentivo diretto a sostenere. Questo significa che il costo si manifesterà al di là dei tre cicli richiamati da Carney: ciclo economico; ciclo della politica monetaria delle banche centrali; ciclo politico. Tipicamente, il primo ha un orizzonte temporale di tre-cinque anni; il secondo di due o tre anni (il ciclo del credito può arrivare a dieci anni); il terzo ha la durata di una legislatura. Certamente le assicurazioni hanno reagito all’aumento dei rimborsi per danni ambientali con un forte aumento dei premi assicurativi, oppure con l’esclusione dalla copertura assicurativa di immobili posti in prossimità di litorali soggetti ad aumenti dei livelli del mare o collocati in aree esposte al maltempo causato dai cambiamenti climatici. Ma questo esempio ci dice che il mercato, da solo, non è un meccanismo che ci può proteggere dai disastri ambientali. In effetti, il Presidente della BoE fa presente che, per determinate situazioni, il governo inglese è dovuto intervenire con un programma pubblico ad hoc per calmierare i crescenti livelli dei premi assicurativi.

Quello che qui si vuole però discutere è il terzo degli orizzonti decisionali ricordati da Carney: quello della politica. Quest’ultimo - a parte il caso patologico dell’Italia, dove, mediamente, è di poco superiore ai dodici mesi - può essere di quattro o cinque anni al massimo e, pertanto, di durata inferiore a quello in cui le costose misure volte a ristabilire la stabilità climatica cominceranno a produrre effetti positivi. Neppure il ciclo settennale della presidenza francese si sta dimostrando un arco temporale sufficiente. Infatti, come ha osservato recentemente Dennis Meadows – uno degli estensori del Rapporto del Club di Roma -, la Presidenza francese, apparentemente più sensibile al tema ambientale, sta disattendendo gli accordi di Parigi (Cop21). Va però aggiunto subito che, come ha messo bene in evidenza Pisani-Ferry, a fronte di un evento dalle dimensioni del cambiamento climatico, misure non solo nazionali, ma anche continentali, non sarebbero di alcuna efficacia.

Meadows fa anche una considerazione sostanzialmente simile a quella di Carney, quando fa osservare che siccome il cambiamento climatico “esige l’adozione di misure estremamente costose che occorrerà adottare nel breve termine, ma i cui effetti non si vedranno prima di decenni”, “nessun uomo politico o partito vincerà le elezioni con un simile programma”. E conclude affermando che questo “è il limite della democrazia, che ha fallito nel trattare il problema ambientale”. La sfida su cui Carney e Meadows attirano l’attenzione è proprio questa: come conciliare il regime democratico con la risposta da dare alle conseguenze del cambiamento climatico?

È noto che vi sono beni pubblici, alla base della pacifica convivenza di una comunità politica, che sono comunemente sottratti alla dialettica politica; nell’UE, la politica monetaria della BCE è indipendente dalla politica, ma riferisce periodicamente al Parlamento europeo. A livello nazionale, maggioranze politiche diverse, che si alternano al governo, possono voler spendere di più o di meno nel settore della difesa, ma non chiedono l’abolizione delle forze armate. Si tratta ora di prendere coscienza del fatto che la stabilità climatica è un bene pubblico mondiale che richiede politiche costose e di lungo termine che non possono essere messe in discussione dall’avvicendarsi al governo di maggioranze politiche diverse.

L’energia da fonti fossili è la principale responsabile del cambiamento climatico, richiede politiche costose, in termini economici e di consenso elettorale e che dovrebbero quindi essere sottratte alla dialettica politica quotidiana, se non in termini di aggiustamenti degli obiettivi concordati. Soprattutto, si dovrebbero prevedere istituzioni permanenti che si occupino del problema. A livello europeo, la politica può almeno cominciare ad adottare misure di lungo termine e quelle su cui si vuole attirare qui l’attenzione sono due: la prima è la proposta della nuova Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e la seconda è una misura di politica industriale che si dovrebbe invece chiedere che entri a far parte del programma della nuova Commissione.

La von der Leyen si è impegnata a presentare, entro i primi 100 giorni del suo mandato, “un Green deal europeo”, accompagnato dall’introduzione di una carbon tax ai confini europei, compatibile con le norme della WTO e quindi, presumibilmente, applicata alle imprese europee che producono gli stessi beni che verranno tassati ai confini. Si tratterà di un passaggio non facile, ma questa politica è parte del patrimonio costituzionale europeo e, quindi, in linea di principio dovrebbe essere fatta propria da tutti i partiti politici o, almeno, da gran parte di essi. Si può ricordare che a supporto delle intenzioni della von der Leyen vi è il parere che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dato riguardo l’accordo di libero scambio con Singapore e la cui importanza è stata largamente sottovalutata. A parte la procedura di ratifica che, comprendendo materie di competenza degli Stati membri, richiede il consenso, non solo dell’UE, ma anche degli Stati, esso afferma due principi fondamentali. In primo luogo che “l’Unione gode di una competenza esclusiva [...] in materia di sviluppo sostenibile (la Corte constata che l’obiettivo dello sviluppo sostenibile costituisce ormai parte integrante della politica commerciale comune dell’Unione e che l’accordo previsto mira a subordinare la liberalizzazione degli scambi commerciali tra l’Unione e Singapore alla condizione che le parti rispettino i loro obblighi internazionali in materia di protezione sociale dei lavoratori e di tutela dell’ambiente)”. Su questo punto specifico, Pisani-Ferry, parlando della carbon tax europea, potrebbe avere quindi torto, quando afferma che “It is ironic that the new leaders of the EU, which has relentlessly championed open markets, will likely trigger a conflict between climate preservation and free trade. But this clash is unavoidable”. Da un lato, se per l’UE non c’è un conflitto tra le due politiche, in quanto politica commerciale e politica per uno sviluppo sostenibile sono la stessa cosa; dall’altro la von der Leyen ha già chiarito che si tratta di introdurre una misura compatibile con le regole della WTO. In secondo luogo, la Corte nel suo parere afferma che l’Unione ha competenza esclusiva in materia “di produzione di energia a partire da fonti non fossili e sostenibili” e questo significa che l’UE in quanto tale può promuovere, ad esempio, accordi con l’Africa per la produzione e l’acquisto di energia da fonti rinnovabili.

Pertanto, se quanto afferma la Corte è corretto, vuol dire che l’Unione europea, nonostante i suoi limiti, rappresenta il primo esempio al mondo di una comunità politica che ha, tra i suoi obiettivi costituzionali, oltre a quello della stabilità monetaria, anche la politica dello sviluppo sostenibile e quest’ultima, come la prima, dovrebbe essere indipendente dalla politica corrente.

La misura di politica industriale dovrebbe invece prevedere un’istituzione sovranazionale, sul modello della CECA incaricata di gestire la produzione dell’acciaio europeo. Una volta presa la decisione, essa non è più stata messa in discussione, grazie anche al fatto che, va detto, l’alternanza politica, per ragioni legate alla Guerra fredda, era impraticabile. L’istituzione permanente cui si fa qui riferimento è un’agenzia europea dotata degli strumenti necessari, compreso quello di ricorrere al debito, per finanziare gli investimenti in R&S e gestione della produzione di energia da fonti rinnovabili. Una volta che la politica ha definito l’obiettivo di riduzione del livello di consumo di energia da fonti fossili (es.: - 50%), l’agenzia sarebbe libera di operare, salvo riferire periodicamente al Parlamento europeo. Il voto per la sua istituzione dovrebbe includere, oltre alla maggioranza politica che governa le istituzioni europee, almeno parte dell’opposizione. Per quanto riguarda gli strumenti, vi sarebbero due strade possibili. Una riguarda il ricorso all’attuale Euratom, che dovrebbe cambiare il proprio statuto, al fine di occuparsi di tutte le fonti di energia rinnovabile. L’altra, che non esclude la prima, è quella di ricorrere all’art. 187 del Trattato di Lisbona, che prevede l’istituzione di “imprese comuni” per promuovere programmi di ricerca, sviluppo tecnologico e che è già stato utilizzato per l’avvio del programma satellitare Galileo.

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Queste brevi osservazioni non pretendono certo di esaurire il complesso tema del rapporto tra le istituzioni della democrazia formale nella loro configurazione corrente e la necessità di adottare misure valide per il lunghissimo periodo. La Cina, con lo strumento della pianificazione, si dà e raggiunge obiettivi di lungo periodo, ma sacrifica le istituzioni democratiche. I sistemi politici occidentali, salvaguardano le istituzioni democratiche, ma con difficoltà progettano il futuro. Occorrerà riprendere il dibattito sul tema della programmazione democratica.

Fonte immagine: Pixnio.

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