Tirocini non pagati, confessioni di una fuorilegge

, di Margherita Corsaro

Tirocini non pagati, confessioni di una fuorilegge
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Sebbene si tratti di attività che richiedono sforzi fisici e mentali esattamente come li richiede un lavoro, non sempre i tirocini vengono retribuiti. Per chi li deve svolgere necessariamente allo scopo di ultimare la propria formazione, la situazione è parecchio grave. In questo articolo, Margherita Corsaro ci racconta la sua esperienza a riguardo.

Dicembre 2021. Fine dell’anno Covid 0.1, fine del primo semestre del secondo anno di Master e, forse, fine della mia carriera universitaria. Ma prima di ciò, ho bisogno di trovare e poi effettuare uno stage di sei mesi. Specifico e distinguo le due azioni, perché entrambe, a modo loro, sono veri e propri lavori. Cerco a Bruxelles: non solo mi pare una scelta naturale dato il mio indirizzo di studi - affari europei - ma, dopo quasi cinque anni di espatrio a Parigi, ho voglia di cambiare aria. Questione di prendere due piccioni con una fava: mettere in pratica le mie conoscenze teoriche e sfruttare le opportunità pratiche fornite dall’Unione europea, di cui troppo pochi sono a conoscenza.

Man mano che le mie ricerche si accumulano e che comincio a farmi un’idea del mercato del lavoro a Bruxelles, deduco che la prassi vuole che uno stagista non sia sempre e comunque pagato. Uno stage è retribuito se il tirocinante ha già ottenuto il proprio diploma, ma non lo è se costui ha bisogno del tirocinio proprio per terminare il suo ciclo di studio. Che sfortuna! Si tratta proprio della mia situazione. Ma non mollo: ho 25 anni, ho già avuto esperienze professionali, mi sono già mantenuta e, dal poco che ne so sui contratti di lavoro a Bruxelles, lavorerò almeno 38 ore a settimana. Non sono disposta a lavorare gratis. Sono, invece, determinata a mandare il mio curriculum solo ed esclusivamente se lo stage in questione è remunerato.

Le settimane passano e le domande che vanno in porto sono ben troppo poche. Nei colloqui che faccio, sono appositamente vaga sulla mia condizione. Per il momento, non ho dovuto mentire, ma arriverà il giorno? Inizio a dubitare della mia tattica. Innanzitutto, fare la furbetta per ottenere qualcosa che non mi spetta, non è da me. Forse - e sarebbe anche una buona cosa - questi stage attirano molta più concorrenza. Forse, il mio curriculum, in cui mi definisco ancora come “studentessa”, è direttamente scartato proprio perché non dovrebbe trovarsi in mezzo alla pila di quelli che hanno diritto a uno stipendio. O forse, è che non sono abbastanza buona.

Poi, inizio ad avere qualche proposta. Negozio o accetto ponendo qualche condizione. Inizio ad agire come qualcuno che ha la coscienza sporca. Cerco di avviare e accelerare le procedure, soprattutto per ritardare il momento in cui verrà fuori che sono solo una studentessa che deve fare uno stage obbligatorio. Non mi do pace: fintanto che non avrò firmato un documento che forzerà il datore di lavoro a tenermi lì, nonostante la mia identità sotto mentite spoglie, non sono tranquilla. E alla fine quel giorno arriva. Sono dentro. Ho trovato uno stage. A Bruxelles. Pagato. Con rimborso spese. Guadagnerò 1150€ al mese. E potrò quasi essere autonoma economicamente. E validare il mio secondo anno di Master.

Il contratto che mi permette queste condizioni invidiabili e questo futuro roseo è conosciuto sotto il nome di Convention d’Immersion Professionnelle (CIP). Si tratta di uno contratto stretto fra tre parti: l’agenzia dell’impiego giovanile (Bruxelles Formation), il datore di lavoro e la lavoratrice, cioè io.

Ma per arrivare dove sono, ho dovuto mentire, o perlomeno omettere dei dettagli. Di solito si mente perché si è in fallo, perché ci si crede più scaltri degli altri o perché si vuole evadere la legge. La mia necessità di mentire è stata senz’altro data da un mix di queste ragioni. Sapevo di essere in fallo: la prassi detta che non potevo accedere a una remunerazione. In alcuni istanti, in cui la felice consapevolezza che il mondo non sarebbe caduto se l’inizio dello stage si fosse rimandato mi stordiva, mi sono sentita più intelligente di quelli che accettavano di lavorare gratis. E sì, mi sono abbassata a oltraggiare le regole a costo di avere quello che volevo.

Guardandomi intorno, noto che la tematica dei tirocini non pagati interessa alcune ONG stabilite proprio a Bruxelles, e anima le loro azioni militanti in favore della loro abolizione. È il caso del Segretariato europeo dei Young European Federalists (JEF), una rete di associazioni in cui sono molto attiva a livello locale, poiché sono stata eletta Presidente della sezione parigina per il primo semestre 2022. E tutto il lavoro che faccio e la dedizione che metto in queste attività volontarie, lo dico con orgoglio, non sono remunerate. La ricchezza viene dal contatto sociale, dalle esperienze, dagli errori, dalla sensazione di costruire qualcosa con le proprie mani. Consiglierei a chiunque di svolgere un’attività di volontariato nel proprio tempo libero. Ed è questa la differenza con il lavoro che dovrebbe essere retribuito ma non lo è: non si tratta di un hobby, ma di un’attività principale.

Con ciò, c’è un altro senso che voglio dare alla mia avventura da fuorilegge. Vorrei che tu, lettore o lettrice, sappia che non sei sol* nel ritenere ingiusto che uno stage non sia pagato; nella tua colpevolezza per essere riuscito a ritagliarti un posto al sole, nel tuo senso di inferiorità e nella tua invidia verso i fortunati stagisti pagati, nel tuo bisogno di trovare uno stage al più presto e di accettare un posto non retribuito. Facciamo tutti parte della stessa macchina, e se vogliamo cambiarla, ci serviranno tutti i suoi ingranaggi. Sappi anche che la verità su ciò che siamo portati a fare, che sia mentire, avere le tasche bucate, deve venire fuori. E che questo sì, è anche responsabilità tua.

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