Tra il mare e l’Europa: il lungo viaggio di un fallimento

, di Diletta Alese

Tra il mare e l'Europa: il lungo viaggio di un fallimento

Il caso della Sea-Watch 3 ci aiuta ad inquadrare la situazione nel Mediterraneo e a ricostruire quello che sta accadendo intorno a noi. Le migrazioni, come scriveva Sayad, sono un fenomeno specchio, ci dicono e mostrano qualcosa di noi e delle nostre società. Dobbiamo avere il coraggio di guardare in quel riflesso che le migrazioni ci stanno mostrando. Perché in quel riflesso, ci siamo noi. E, fatemelo dire, abbiamo una bruttissima cera.

Partiamo da una piccola premessa. Il sollevamento dalle accuse della Comandante Carola Rackete dimostra che viviamo – seppur a singhiozzi - ancora in uno stato di diritto, in cui la salvaguardia della vita e della libertà viene prima di qualsiasi altra considerazione. Nonostante questo, si sta continuando a consumare una battaglia “ideologica” su tematiche che dovrebbero invece rappresentare i “limiti politici” costituzionali e del diritto internazionale, i contorni di civiltà del nostro vivere comune. Il salvataggio delle vite umane non può essere infatti materia di discussione politica, non è una posizione di destra o di sinistra, poiché rappresenta un diritto fondamentale (per chi è in difficoltà) e un dovere innegabile (per chi soccorre) alla base della nostra identità democratica legata a doppio filo alla garanzia dei diritti umani.

La seconda premessa essenziale è che l’alternativa al lavoro delle ONG è l’inevitabilità delle morti in mare, a cui abbiamo finito per abituarci, abbrutiti (noi) da anni di securitizzazione e criminalizzazione delle migrazioni, processi che hanno finito per de-umanizzare i protagonisti di questa storia: le donne, gli uomini e i bambini che cercavano e cercano di arrivare dall’altra parte, la “nostra” parte, quella in cui si vive meglio per puro “diritto di nascita”.

In soli 5 anni sono morte vicino le nostre coste quasi 15.000 persone, 667 solo nel 2019 (tra quelle stimate, quelle invisibili non potranno mai essere calcolate). E il numero delle vittime raddoppia se andiamo indietro di qualche altro anno.

Siamo passati da un’operazione comunitaria di salvataggio come quella di Mare Nostrum (2013-2014), istituita dopo la tragedia del naufragio del 3 ottobre 2013 in cui persero la vita 368 persone, all’assenza di qualsiasi misura istituzionalizzata. Nel mentre, è avvenuta la conversione delle misure di salvataggio in operazioni antiterrorismo o di mera gestione dei confini. Le poche ONG che ancora oggi riescono a rimanere in mare rappresentano l’unica risposta ad una mancanza strutturale che rende il Mediterraneo un cimitero sempre più silenzioso.

Il coraggio di Carola Rackete non può però sostituire la mancanza di una politica continentale per l’immigrazione, ma come è già successo per altri grandi gesti del passato, può smuovere la nostra umanità per scoprire quanto in basso siamo finiti. Quanto in basso viviamo la nostra quotidianità, ignorando che le nostre coste rappresentano il confine più mortale al mondo. Ignorando che il nostro governo si sta alleando in Europa con Stati caratterizzati da derive autoritarie, isolandoci e rinunciando a far dell’Italia uno degli attori del processo di integrazione europeo. E se questo già non bastasse (sic), escono fuori gravi prove per corruzione internazionale a carico di Savoini e quindi su ingerenze russe nella politica italiana, con le richieste di finanziamento al partito della Lega. Quello sovranista sì, quello del “prima gli italiani” che si genuflette al cospetto della Russia di Putin, cercando mezzi impropri per destabilizzare la politica del continente europeo. Ma cos’altro dovranno fare, per farci davvero destare da questo torpore?

Giusto per inquadrare tutto questo nel contesto di riferimento, l’Italia sta sostanzialmente morendo, come dimostrato dagli ultimi dati demografici, sugli Invalsi e sulla crescita economica: saldo demografico tremendamente negativo con il più basso tasso di nascita in Europa; paese spaccato in due dal punto di vista educativo, migliaia di ragazzi in fuga e sempre meno investimenti nel sistema scolastico; crescita a zero.

A questo punto molti reagiranno con il mantra del “ma l’Europa ci ha lasciati soli sui migranti” e oggi, come spesso accade, si torna a parlare del Regolamento di Dublino, che stabilisce l’obbligo di processare le richieste di asilo nel primo paese di arrivo. Vale la pena spiegare quindi come la Lega abbia sostanzialmente truffato i suoi elettori (con l’aiuto – da non sottovalutare - del M5S).

Il 27 novembre 2017, Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza la modifica del Regolamento, bocciata e poi ignorata nel Consiglio dell’Ue (l’insieme dei ministri degli Stati) e nel Consiglio europeo (aka i vertici, le riunioni dei capi di Stato e di governo). L’Italia - che paradossalmente si lamenta del mancato sostegno europeo - è stata assente al tavolo delle discussioni sul tema. Negli ultimi mesi su sette vertici dedicati, ha partecipato ad un solo incontro. La Lega inoltre ha votato contro la riforma del Regolamento (che prevedeva un sistema di solidarietà europeo) e non ha partecipato a nessuna delle 22 riunioni di negoziato che si sono svolte in seno al PE. Ripeto, ha votato contro. Un partito che costruisce praticamente tutto il suo apparato propagandistico sulla questione delle migrazioni e che vota contro la proposta di modifica di un Regolamento che solleverebbe il paese dall’onere di esaminare tutte le richieste di asilo.

Ecco svelato dunque il trucco di un partito e per esteso di un governo che costruisce la sua retorica sulla mancanza di un sistema europeo mentre non muove un dito o addirittura sabota qualsiasi tentativo di costruzione di una risposta continentale. Questa è la presa in giro di un governo che ha creato e continua a creare ad arte delle “mancanze” di cui è in primis responsabile. Questo è l’abbassamento di una politica gretta, fine a sé stessa, il cui obiettivo sembra essere il mero consenso e la creazione di uno stato permanente di insicurezza e di paura, un sistema che ignora i problemi strutturali reali che riguardano la sicurezza sociale, ipotecando il nostro futuro, e parla in modo unidirezionale alla percezione distorta di un pericolo che, in realtà, non esiste e non è mai esistito.

Le migrazioni sono un capro espiatorio, l’Europa è un capro espiatorio. E noi tutti subiamo quotidianamente il peso di queste menzogne. Questa strumentalizzazione e questa becera propaganda non possono essere tollerate.

La società civile, che non può sostituire strutturalmente la mancanza di istituzioni, rappresenta oggi quei valori democratici e costituzionali (in divenire) che ancora non sono stati formalizzati a livello europeo. Ed è da quella società civile che dobbiamo ripartire.

Dal punto di vista legislativo, la Sea Watch per entrare senza permesso al porto di Lampedusa ha compiuto anche un atto di disobbedienza civile, un atto di resistenza contro chi vuole istituzionalizzare la disumanità. La caratteristica principale di ogni atto di disobbedienza civile è la volontà di reagire a leggi inique tramite atti pubblici, al fine di iniziare un percorso di trasformazione delle norme e delle istituzioni per renderle realmente capaci di garantire diritti, democrazia e libertà. Contro il formalismo giuridico, dobbiamo indicare le coordinate della nostra civiltà, impegnandoci per la realizzazione di una reale democrazia europea, per elevare e confermare dei diritti che non possano più essere negati o messi in discussione. La disobbedienza civile dei cittadini e della società civile diventa un dovere morale quando vengono minacciate le fondamenta della nostra coesistenza pacifica, delle nostre democrazie e del nostro stato di diritto.

La Sea Watch peraltro ha di fatto agito all’interno del quadro delle leggi internazionali e costituzionali, e per farlo, ha violato l’ordine di fermarsi e il decreto Sicurezza che le impedivano l’entrata in acque territoriali. Lo ha fatto per compiere un dovere, quello del salvataggio dei naufraghi, e questo dovere non solo ci definisce come civiltà ma è sancito e imposto dalla legge.

Di fatto, in casi come questo, si verifica un contrasto evidente tra il decreto sicurezza, la nostra Costituzione e il diritto Internazionale. Inoltre, l’art.51 del Codice penale esime dalla pena colui che abbia commesso il fatto per adempiere ad un dovere impostogli da una norma o da un ordine legittimo.

In merito alle minacce di “espulsione”, di cui si è subito riempito la bocca il ministro, secondo il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), un cittadino dell’Unione può essere allontanato da uno stato membro quando la sua presenza costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sanità pubblica di un altro Stato membro dell’Unione Europea. Basta leggere la versione estesa per comprendere che Carola non rientra in nessuno dei casi presentati dalla legge.

Vergognosi sono invece gli insulti rivolti alla Comandante appena arrivata a terra, che le auguravano di essere stuprata e torturata. La brutalità di questo linguaggio e la sua assurda normalizzazione, non possono essere considerati episodi “isolati”. Sono la prova dell’esistenza di una collettività incattivita, razzista, sessista e antidemocratica. Una noncultura che, col tempo, sta diventando assoluta normalità. Dopo la risposta del giudice, il Ministro dell’Interno ha continuato imperterrito affermando che Carola avrebbe potuto essere ovunque, vicino a noi a prendere un gelato, l’ha trattata come un’untrice, insistendo sul fatto che avesse provato ad uccidere dei poliziotti anche dopo il sollevamento da tale accusa. La comandante ha quindi presentato una querela contro il ministro dell’Interno per “diffamazione aggravata” e “istigazione a delinquere” e nella denuncia chiede ai magistrati di sequestrare i mezzi attraverso cui passa il “messaggio d’odio”, le pagine ufficiali su Facebook e Twitter di Salvini.

Ma quella di Carola non è certo l’unica opposizione. Anche Daniele Tissone, segretario Silp (Sindacato dei lavoratori di polizia) Cigl, ha affermato la pericolosità di quei decreti che intervengono sul presupposto della paura ignorando i dati oggettivi in merito alla questione “securitaria”, ponendo il corpo di polizia sotto pressione, trattandolo come un braccio armato dell’esecutivo quando il suo ruolo dovrebbe essere quello di tutela delle persone per la convivenza civile.

Anche se apparentemente non è mai abbastanza, tutti questi tasselli contribuiscono ad intaccare il castello di carte della propaganda di governo rivelandone l’impalcatura strumentale e il magma di menzogne poste alla sua base.

In conclusione, servono riposte. Risposte concrete che intervengano al giusto livello, quello europeo, interessato da un fenomeno globale e strutturale come quello migratorio. Serve una politica democratica di cooperazione e sviluppo con e per Africa in sinergia con le organizzazioni internazionali già presenti nel continente (UA) in netta opposizione all’azione neocolonialista e militarista di Cina e USA; è necessaria una politica di immigrazione e inclusione europea che corrisponda a un sistema di valori che garantiscano il nostro stesso essere europei, la nostra identità; servono canali legali di accesso e corridoi umanitari per evitare ulteriori tragedie, per evitare che si ripeta ancora e ancora, in questo macabro eterno ritorno, l’unica emergenza che sia mai davvero esistita, quella umanitaria.

E cosa definisce la nostra identità se non il progetto di un’unione politica fondato sull’unità nella diversità, che fa del pluralismo la nostra ricchezza e pone delle basi nette valoriali comuni al centro del nostro presente e del nostro futuro di europei? Questa definizione però non è data, non è calata dall’alto, non può essere imposta. Questa definizione di identità è una scelta che siamo chiamati a fare. Ricordiamolo ogni giorno. Scegliamo di cambiare le cose.

Fonte immagine: Wikimedia.

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