Trump, simulacro d’un tempo di fumo

, di Francesco Formigari

Trump, simulacro d'un tempo di fumo
Donald Trump

È futuro certo che il presidente Donald Trump non ricorderà la giornata del 31 ottobre 2019 con piacere: nella data coincidente con la festività tutta statunitense legata alla paura, infatti, Trump è stato costretto a ricevere ciò che la giornalista de La Repubblica Anna Lombardi ha definito eloquentemente come una “mela stregata”. Fuor di metafora, l’oggetto in discussione è costituito dalla risoluzione attinente alla procedura di impeachment che proprio il 31 ottobre la Camera del Congresso ha ufficialmente approvato con larga maggioranza – ossia 231 voti a favore contro 194 a sfavore. La risoluzione, che ha consegnato il nome di Trump all’ignominiosa lista dei presidenti sottoposti alla procedura di impeachment (oltre al summenzionato, si ricordino Johnson nel 1868, Nixon nel 1974 e Clinton nel 1998), segna un momento decisamente rilevante rispetto all’iter che nel più clamoroso e sconvolgente dei casi comporterebbe la destituzione di Trump dalla carica. L’importanza del documento di otto pagine i cui contenuti sono stati concordati dal House Rules Committee (che è composto da nove democratici e quattro repubblicani) alberga in un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, è opportuno evidenziare che la funzione della risoluzione risiede nel garantire la trasparenza delle indagini relative all’Ucrainagate, delle quali si stanno occupando sei commissioni parlamentari, e nel disciplinare le regole legate al procedimento che coinvolgerà la figura di Trump. Il testo, ad summam, è volto ad assicurare ciò che secondo il diritto costituzionale statunitense, come spiegato dal professor William Banks alla CNN, si configura come un “due process” caratterizzato da “fair procedures”. Per questo motivo, dunque, la risoluzione contiene anche delle regole riguardanti i diritti spettanti alla difesa di Trump: i legali del presidente potranno presenziare alle venture audizioni, chiedere mandati per altri testimoni, e raccogliere altra documentazione. Non soltanto diritti, però: nella risoluzione, infatti, è precisato che se il presidente si rifiuterà ingiustamente di cooperare alle richieste avanzate dal Congresso il diritto di partecipazione esteso all’amministrazione Trump sarà sottoposto al vaglio del Committee Chairman. In secondo luogo, la rilevanza legata alla risoluzione in esame è sorretta dal fatto che l’approvazione della stessa ha determinato l’avvio della seconda fase della procedura di impeachment: dopo le audizioni a porte chiuse nell’aula-bunker di Capitol Hill svoltesi nelle ultime settimane, grazie alla risoluzione cominceranno le audizioni pubbliche al termine delle quali la Commissione di Intelligence stenderà un rapporto sul quale si pronuncerà la Commissione di Giustizia. Da tale commissione, infine, dipenderà l’apertura del processo al Senato che potrebbe causare la caduta di Trump – ipotesi, quest’ultima, che secondo alcuni commentatori dev’essere considerata come poco probabile: al Senato, infatti, la maggioranza è attualmente tra le mani dei repubblicani.

L’accoglienza riservata all’approvazione della risoluzione, com’era lecito aspettarsi, è stata segnata da ampie divisioni e aspre polemiche: non casualmente, il giornalista di ABC News Teddy Moran ha parlato di “solid and unmoving battle lines”. I democratici, tra i quali ultimamente si respira un clima di vivace speranza, hanno accolto tale approvazione con entusiasmo: d’altronde, secondo un sondaggio diffuso dalla stessa ABC News e dal Washington Post, il 49% degli americani sarebbe favorevole al processo di impeachment contro Trump. La democratica Nancy Pelosi, in una puntata del late-show di Stephen Colbert diffuso dalla CBS, ha difeso la legittimità della risoluzione sostenendo che “it gave them (ossia ai repubblicani, ndr) more rights than we ever received in any of the other impeachment proceedings.” Limitatamente alla figura di Nancy Pelosi, è bene ricordare che proprio la stessa, in qualità di speaker della Camera, il 24 settembre scorso ha annunciato l’inizio di una “formal impeachment inquiry” ai danni di Trump accusando il presidente di un triplice tradimento: del suo giuramento d’ufficio, della sicurezza nazionale, e della integrità delle elezioni statunitensi del 2016. Sempre Nancy Pelosi, esprimendosi però intorno alle votazioni concernenti la risoluzione, ha parlato dell’importanza di difendere la Costituzione americana e ha spiegato il cuore del processo di impeachment dichiarando: “This – that is what this vote is about. It is about the truth.” Parole che, allargando per qualche istante la prospettiva del discorso, hanno toccato con pieno nitore il tema della verità, il quale si pone ormai da tempo come uno dei temi più significativi rispetto alla presidenza di Donald Trump: allo stesso si tornerà più avanti.

La reazione manifestatasi tra i repubblicani individua il suo più nitido emblema nell’esito delle votazioni svoltesi il 31 ottobre: in tale occasione i repubblicani hanno difeso con la compattezza di una falange oplitica la figura del presidente. Nelle ultime settimane, poi, alcuni esponenti del partito repubblicano hanno tentato di ostacolare le audizioni dei testimoni presentandosi nell’aula di Capitol Hill con intenti ostruzionistico-intimidatori, mentre qualcuno tra i più ferventi praticanti del culto trumpiano è giunto persino ad avallare pubblicamente le dubbie dichiarazioni di Trump. Allo stesso Trump si deve guardare se si intendono focalizzare le maggiori manovre compiute in opposizione ai democratici. Prima che si giungesse all’approvazione della risoluzione, la difesa di Trump dalle accuse di “abuse of power” era basata sulla cruda e brutale negazione dei fatti attestati dalle audizioni e su manovre quali il rifiuto a cooperare con le indagini esternato dalla Casa Bianca. Dopo la consegna della “mela stregata”, la linea sostenuta dal presidente e dalla sua amministrazione si è evoluta. È bene ricordare, però, che l’evoluzione in questione è stata accompagnata anche dal rilascio di alcune dichiarazioni, come sempre, furenti: su Twitter – che è uno dei suoi strumenti di lavoro prediletti – Trump ha definito la procedura di impeachment una caccia alle streghe e ha agitato lo spauracchio economico scrivendo che “the impeachment hoax is hurting our stock market”; l’addetta stampa della Casa Bianca Stephanie Grisham, invece, ha bollato come “unconstitutional” la risoluzione. L’evoluzione propriamente tale della difesa di Trump, ad ogni modo, si è sviluppata in relazione alla necessità di coniugare il contrasto alle accuse con la promozione della figura dello stesso presidente, essendo sempre più vicina la scadenza del mandato e sempre più vivo lo scontro legato alle presidenziali del prossimo anno. Secondo quanto riportato dalla CNN, l’amministrazione Trump ha optato per un “audacious re-election pitch” finalizzato a presentare lo stesso Trump come un “tough guy president beset by corrupt elites and boosting the US abroad” avente uno dei propri “talking points” più efficaci nell’economia: dunque, una manipolazione della realtà tesa (ancora una volta) a raccontare Trump come se quest’ultimo fosse il muscoloso e invincibile salvatore degli interessi nazionali. Nella direzione evidenziata procede chiaramente lo spot elettorale pro Trump andato in onda per la prima volta durante una partita delle World Series 2019: in tale spot una voce stentorea annuncia roboante che “he’s no Mr. Nice Guy (il “lui” in questione è Trump, ndr) but sometimes it takes a Donald Trump to change Washington”. Allo sforzo in esame ha partecipato via Twitter anche la discussa figlia del presidente Ivanka Trump, che si è schierata a difesa del padre citando Thomas Jefferson e cercando di alimentare la narrazione volta a ritrarre Trump secondo il topos della vittima di bugiardi e di attacchi infondati. In sintesi, si può sostenere che la risposta di Trump alle accuse e alle necessità di campagna elettorale è stata finora rappresentata dalla creazione di una tanto paradossale quanto normalizzante “alternative reality” – ecco tornare il tema della verità di cui prima.

Pervenuti a questo punto, è inevitabile specificare che un elemento dalla capitale importanza ancora non è stato esaminato: si tratta della causa che ha permesso ai democratici di avviare delle audizioni a porte chiuse prima e di giungere a una risoluzione legata al procedimento di impeachment poi. Illustrare tale causa postula la formulazione di una premessa: tra i più temibili avversari di Donald Trump attualmente è possibile annoverare Joe Biden, democratico già vice-presidente durante l’era Obama. Ebbene: secondo una narrazione tanto popolare tra i repubblicani quanto infondata, Joe Biden avrebbe protetto con indebite ingerenze il figlio Hunter da alcune inchieste anti-corruzione ai tempi in cui quest’ultimo lavorava per una compagnia energetica ucraina chiamata Burisma. Ora, così com’è stata ricostruita dalle audizioni degli stessi testimoni, comincia la realtà: convinto di poterne trarre dei vantaggi politici, tra l’aprile e il maggio 2019 Trump ha esercitato delle pressioni sul governo ucraino affinché quest’ultimo avviasse una scomoda inchiesta intorno ai Biden. Tali pressioni sono culminate con la scandalosa chiamata del 25 luglio 2019 tra Trump e il presidente ucraino Volodimir Zelensky, i cui contenuti sono stati resi accessibili dalle parole dei testimoni e poi pubblicate dai maggiori media. Se Zelensky non avesse avviato l’inchiesta contro i Biden, Trump non avrebbe permesso allo stesso Zelensky di far visita alla Casa Bianca e avrebbe sospeso – come poi è effettivamente accaduto – gli aiuti militari statunitensi all’Ucraina, tuttora in guerra con la Russia. Secondo il The Guardian, tali aiuti sarebbero ammontati a 391 milioni di dollari. La rete di pressioni menzionata è stata orchestrata da Trump attraverso diverse figure: in primo luogo, l’avvocato del presidente Rudy Giuliani; con lo stesso, poi, hanno collaborato l’ex ministro dell’Energia Rick Perry, l’ambasciatore statunitense presso l’UE Gordon Sondland, l’inviato speciale in Ucraina Kurk Volker e da parte ucraina il consigliere di Zelensky, ossia Andriy Yermak. Secondo Il Post, per meglio perseguire il proprio obiettivo Trump avrebbe abusato del suo potere anche nei confronti di Marie Yovanovitch, ambasciatrice statunitense in Ucraina rimossa dall’incarico proprio a maggio a causa dell’ostilità palesata dalla stessa e segnalata a Trump da personaggi come Giuliani.

Come evidenziato nelle righe precedenti, l’intera trama della torbida vicenda è stata rivelata gradualmente dai testimoni coinvolti nelle audizioni. Il 12 agosto 2019 un informatore anonimo ha denunciato all’ispettore generale dell’Intelligence il contenuto della chiamata Trump-Zelensky risalente al 25 luglio, avviando così il caso che in seguito è stato ribattezzato dalla stampa “Ucrainagate” e l’iter che nel mese di ottobre ha convocato a Capitol Hill diversi testimoni illustri. Volker ha testimoniato il 4 ottobre, mentre il 14 ottobre è stato il turno di Fiona Hill: quest’ultima, senior director per l’Europa e la Russia nel Consiglio di Sicurezza Nazionale, durante la propria audizione ha parlato di “shadow foreign policy in Ukraine”. Il 17 ottobre è stato ascoltato Sondland, che ha rilasciato un’ambigua testimonianza: secondo il medesimo, che ha poi corretto le proprie dichiarazioni, non si sarebbe verificato alcun qui pro quo tra Stati Uniti e Ucraina. Il 22 e il 29 ottobre hanno deposto rispettivamente William Taylor, career ambassador a capo dell’ambasciata situata a Kiev, e il colonnello Alexander Vindman: entrambi hanno manifestato dubbi e timori rispetto alle scelte di Trump, Taylor parlando di una “irregular, informal policy” tra i due Paesi e Vindman dell’orientamento personalistico delle mosse presidenziali. Tra i testimoni non ancora pronunciatisi un ruolo di notevole importanza è attribuito dai commentatori a John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale licenziatosi il 10 settembre in seguito a delle presunte divergenze riguardanti l’affaire ucraino: Bolton ha dichiarato che comparirà soltanto se obbligato da un mandato.

Nonostante tutto e tutti, dopo l’approvazione della risoluzione sulla quale si è concentrata la parte iniziale di questo testo Trump, incrollabile, ha dichiarato alla britannica LBC Radio che la chiamata con Zelensky è stata una “perfect phone call” e che i democratici “have got nothing going”. In tali parole è possibile scorgere nuovamente il tema della verità sottolineato in precedenza. Da quando il suo mandato è iniziato, Trump è stato il protagonista indiscutibile e oltremodo discusso di numerosi scandali: è sufficiente pensare agli indecenti episodi relativi alla pornostar Stormy Daniels e alla playmate Karen McDougal, oppure alla losca faccenda riguardante i rapporti con la Russia che è stata oggetto della temuta, ma poi non così esplosiva, inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller. Sempre al di là di tutto, Trump ha continuato e continua tuttora a vivere ritraendo sé stesso in maniera grottescamente irrealistica: di tale narrazione non cessano di nutrirsi i suoi sostenitori, ciechi servi di una retorica fatta d’invenzione assoluta. Trump, allora, non corrisponde soltanto alle fiamme paventate da Tom Cole, deputato conservatore dell’Oklahoma che si espresse in maniera critica nei confronti di Trump ai tempi del Russiagate. Trump è anche fumo: in tempo di liquide fake news che si spargono a macchia d’olio e verità atomisticamente post-moderne, il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti si erge a simulacro del fumo che ottenebra gli sguardi e le menti generando mostri. A ben pensarci, lo stesso Trump sembra un mostro: uno di quei mostri in completo che spesso figurano, patinati, in un’opera brillante e arcinota quale “Il processo” di Kafka. Forse il 2020 segnerà la sua caduta. Se così accadrà, questo simulacro d’un tempo di fumo non dovrà essere dimenticato. Come un monito la sua immagine dovrà sedimentarsi tra le coscienze – critiche e libere, si spera – delle generazioni future.

Articolo originariamente pubblicato su http://www.mfe2.it/verona/?p=674 e qui ripubblicato col consenso dell’autore

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