Un 2 giugno di sobrietà

Accogliendo le istanze del precedente 25 aprile, tocca darsi alla sobrietà

, di Davide Emanuele Iannace

Un 2 giugno di sobrietà

Fin da quando sono piccolo, il 2 giugno ha per me un significato speciale. Non è solo la celebrazione della Repubblica, ma è stato sempre per me un momento di comunione con mio padre e mio fratello, la parata, l’opportunità di vederla tutti insieme alla vigilia dell’estate, alla fine della scuola, quando le giornate allungate si presentavano allegre e spensierate.

Ogni anno, tendenzialmente da quando scrivo per Eurobull, ho anche scritto dell’importanza del 2 di giugno come festa italiana ma anche europea. È la festa che rappresenta lo spirito della Repubblica, il passaggio, il salto di coraggio che il paese compì alla fine del Secondo conflitto mondiale con vero ardore e spirito democratico. Lo stesso ardore che ho sempre pensato dovesse vivere nel sangue e nei cuori di chi appoggia la causa federalista, la volontà di guardare al futuro con speranza, passione, a volte timore e anche paura, ma senza mai davvero farsi fermare da ciò.

Quest’anno il 2 giugno non riesco a festeggiarlo. Non riesco a festeggiarlo perché, mentre rifletto proprio su queste parole appena scritte, ho la vaga sensazione che mai come quest’anno suonino vuote. Sconsiderate, prive di valore, svuotate, grige quasi. Suona drammatico, certamente, ma aprire un qualsiasi outlet di news online o cartaceo che sia, è il drammatico che domina. Un drammatico che corre dal genocidio di Gaza fino ai bombardamenti sui civili ucraini, all’avanzare impetuoso dell’orrido negli Stati Uniti nelle forme più varie, ai disastri umanitari e ai conflitti a malapena sventati tra Africa e Asia.

E in tutto questo c’è l’Europa, questo giardino verde che si è cinto di mura altissime, a volte invisibili e a volte totalmente manifeste, che si è cinta un po’ dietro il suo stesso spirito umanitario, dietro la sua morale, la sua etica, la sua storia, che ha chiesto un po’ scusa per il passato e chiudendo con il passato sembra aver chiuso anche con il futuro. E a chiunque ci tenga al futuro, questo non va bene. Se qualche margine di azione è sembrato lentamente esplodere a Bruxelles e a qualche capitale europea – forse più spaventata dall’avanzare ingordo delle destre ultranazionalistiche che altro -, ci sono paesi come l’Italia che dell’apatia hanno fatto uno stile di vita. Del suo passato l’Italia ha creato ora un po’ una cortina di fumo che crea un malinconico ricordo dei tempi che furono, un po’ ha spazzato i suoi errori ed orrori sotto il tappeto, come polvere da nascondere. E del futuro, cosciamente, ha smesso di parlare e pensare.

Il 2 giugno non si può festeggiare, perché quello che si dovrebbe festeggiare, il futuro, l’ardore, la volontà di vivere, si è assopita. È stata addormentata, buttata nel letto con le coperte a malapena rimboccate, dando gli affari del paese in pasto ad un manipolo di politici senza visione, senza ideali, chiusi nella loro grezza chiusura del “noi vs. loro”. Nemmeno è chiaro chi sia il noi e chi sia il loro. Cambia, anche questo, fludiamente come le loro idee e progettualità. Un paese senza sostanza, senza struttura, e senza costanza. Un paese che quindi non si può festeggiare, perché non è esattamente chiaro cosa andrebbe festeggiato esattamente.

Forse l’ideale della Repubblica, che abbiamo lasciato affondare pian piano nella cialtroneria generale, nel disinteresse di un popolo che ad un referendum si sente dire “No, non voto” e si inventa le più patetiche scuse, come quelle di certi sindacati che rivendicano la loro lotta al punto da sputare in faccia all’opportunità di fare un passo in avanti. Un paese che, di fatto, abbandona i propri giovani. Li accusa, li vitupera, li denigra, poi li rivuole, poi li ama, poi gli mancano. Un paese fatto di città che sanno di piccoli paesi, immobili nelle loro rendite miliardarie che si ripetono come maree, avanti ed indietro, senza mai cambiare né nome né cognome. Questa repubblica, questo immobile ammasso di burocrazia e di istituzioni oramai plastificate, corrotte e corruttibili, che sputa su sé stessa, non si può festeggiare.

Qualcuno dirà: non è così tragica, c’è di peggio, si può sempre andare peggio. Ed è vero. Si può peggiorare, possiamo arrivare a macellarci per strada, a spararci per un tozzo di pane raffermo. Potrebbe andare peggio. Ma questa scusa del “peggio” è diventata l’altare dell’inazione, dell’attesa spasmodica di qualcos’altro, di qualcun altro che ci salvi. L’Italia non si può festeggiare il 2 giugno, perché ogni tassello su cui la sua Costituzione è stata costruita, ogni idea, ogni sogno, sta venendo tradito. Sta venendo tradito nei suoi confini, ma anche verso l’esterno. Verso quegli altri popoli che all’Italia e all’Europa guardano in cerca di un sollievo, di un aiuto.

L’Italia, paese di immigrati, sputa in faccia ai morti del Mediterraneo nel cieco terrore di “perdersi”. Non si è ancora capito cosa. Forse a rubarci la raccolta di pomodori a due euro, la povertà ai bordi della strada, la tratta di esseri umani equamente divisa tra mafie africane e nazionali, vero orgoglio patrio? Non si capisce esattamente cosa ci dovrebbe essere rubato. E ci sono poi quei popoli che nemmeno emigrano, che semplicemente vorrebbero vivere, a cui viene negato anche questo semplice diritto. Che siano ucraini o palestinesi, sudanesi o birmani, conflitti irrompono quotidianamente sui nostri schermi e li si scrolla come un noioso meme o una notifica poco divertente. Eppure, basterebbe davvero poco. Basterebbe un semplice passo, un semplice “Si” ad un Consiglio dell’ONU, un banale “No” ad una vendita di armi e sistemi d’armi a paesi come Israele. Basterebbe avere il coraggio di rinunciare a qualcosina per difendere un altro paese, per dirgli che quantomeno lo riconosciamo nella sua esistenza, che il suo dolore è il nostro dolore.

Non si è chiesto ai soldati italiani di affrontare l’IDF, né di andare a caccia di Hamas, né di schierarsi tra ucraini e russi. Si è chiesto un atto, una parola forte, un gesto che sia più delle banalità insensate che la Farnesina riesce a formulare in maniera poco coerente. L’Europa si muove in maniera altrettanto sconnessa, incoerentemente. Paesi come la Spagna riescono ancora a mantenere un brandello di dignità in un continente che va a votare neonazisti e nazionalisti quando più di tutti abbiamo visto il dolore che questo provoca a lungo termine.

E in mezzo a quest’apatia, io dirò la cosa meno convenzionale che potreste sentir dire a qualcuno in questo clima: dobbiamo riscoprirci Futuristi. Per questo 2 giugno, non c’è nulla da festeggiare, ma c’è un mondo da sognare, disegnare, ma non solo, da agire. Non c’è solo da guardare, c’è da sporcarsi le mani, esattamente come il Futurismo nell’arte rivendicava di fare. Il fascismo, per motivi che ora non stiamo qui ad elencare, ha trasformato il Futurismo e il culto del progresso in un nemico della ragione, e della pace soprattutto. Fu detto “Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione, anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza”. E proprio con questa frase di Marinetti ci tocca guardare al futuro e al progresso, inteso non solo come tecnica, ma anche come tecnica sociale, economica. Come insieme dei fatti e della creazione che devono essere compiuti, bisogna tornare a guardare al futuro con desiderio di coglierlo, questo futuro, di farlo proprio. Di disegnarlo si, anche di sognarlo, ma soprattutto di viverlo.

È la scossa di cui hanno bisogno sia l’Europa che l’Italia. In quest’epoca di turbamenti, dobbiamo ritrovare il desiderio d’azione e di agire, collettivamente, per riprendere la rotta che il 2 giugno, come il 25 aprile, come il 9 maggio, rappresentano. Un’azione che, oggi più che mai, dovrebbe essere tesa ad abbattere i confini, a far propri i principi di pace – una pace solida, costruita laddove necessario, non solo passivamente vissuta – ma anche quelli di uguaglianza e di solidarietà. Non si costruite il mondo del domani abbandonando al passato interi popoli. Non si concede ad un impero, quello Russo, il diritto alla violenza sperando di nasconderci dietro il sangue ucraino per la nostra fantomatica “pace”. Non si resta in silenzio dinanzi un genocidio, quello palestinese, solo perché è più conveniente per fare affari con Israele, solo perché non sembra avere conseguenze dirette. Le ha, le conseguenze. Le ha nella ferita che non si rimargina, quella di un massacro tale per cui gli echi si propagano per i decenni, e il dolore si moltiplica esponenzialmente tra terre e nuove guerre. Il mondo ha visto tanti, troppi genocidi – l’Olocausto, quello armeno - e mai le ferite si rimarginano completamente, rimangono sempre latenti fino a che non si interviene attivamente per disinfettarle, curarle. Ed è quello che l’Europa deve fare oggi, oggi che ancora si può.

L’Italia del 2 giugno che non festeggio è l’Italia, anzi, l’Europa dell’apatia e del disinteresse. Del “meglio agli altri che a noi”, del chiudere i confini agli affamati e anche verso sé stessi, per la paura di uno sconosciuto che non si conosce né comprende. Questo non si può festeggiare. Io vorrò festeggiare il 2 giugno quando, anche sbagliando, saremo in movimento, saremo tesi a cercare di costruire un mondo diverso, e forse nel tentativo né creeremo uno migliore, forse fallendo né costruiremo uno peggiore. Ma sarà un tentativo, sarà un modo di cogliere il futuro e farlo proprio, di sfidare le apatie istituzionalizzate, rette da sovrano imperialisti che credono di poter scrivere, a suon di tweet, la storia del mondo.

Abbiate fiducia nel progresso”, diceva Marinetti. Ancora prima di averne fiducia, c’è bisogno di ricostruirlo, un senso del progresso. Di modellizzare un futuro, di far propria un’idea, poi di lanciarsi, anche se è pericoloso, anche se è spaventoso, anche se sembra un mondo grigio, in cui le azioni individuali non possono avere conseguenze. Il futuro, già sapete come la si pensa in questo spazio, appartiene non alle nazioni – che in Europa sono ottime scuse solo per non agire. Ma se si vuole fare dell’Europa qualcosa di più che di un ammasso di burocrazia, c’è bisogno di sogni. Di azioni. Di progresso vero e proprio. C’è bisogno di movimento, c’è bisogno di dire alla popolazione che qualcosa c’è. Che, l’Europa, eppur si muove.

In quest’epoca, mai come prima d’ora, si può iniziare proprio dall’esterno dell’Europa, dal dire ad altri popoli che si, l’Europa c’è anche per loro, anche se non sono europei, ma sono pur sempre umani. E solo forse rappresentandosi all’esterno come il sogno dei padri fondatori, come il sogno di chi quel 2 giugno se l’è guadagnato col sangue ed ha guardato all’Europa con speranza, si può tornare poi a guardare verso le proprie strade, le proprie stanze, le proprie città e campagne, e dirsi anche qui, di muoversi. Di agire. Di fare.

Il 2 giugno, la Repubblica italiana, l’Europa, sono fondate sul movimento. Di idee, di azioni, di speranze. Senza quel movimento, rimangono briciole e sogni smarriti. E quelli non si possono festeggiare.

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