Era evidente che l’elezione di Ursula von der Leyen quale Presidente della Commissione europea da parte del Parlamento europeo non sarebbe stata un passaggio facile e scontato. Il risultato finale, con una maggioranza di 383 voti su 374 richiesti (furono 422, su 367 necessari, per Jean-Claude Juncker nel 2014) è positivo, ma è anche un segnale da non sottovalutare. È comunque importante che possa andare avanti la complessa procedura che porterà all’insediamento della nuova Commissione, il 1° novembre prossimo. Ma sono davvero molte le «lezioni europee» su cui riflettere, con pazienza e lungimiranza.
Dobbiamo anzitutto avere chiaro il significato del passaggio istituzionale che abbiamo vissuto ieri. La candidata proposta dal Consiglio europeo (ovvero i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione) quale Presidente dell’esecutivo europeo (la Commissione), ha presentato il proprio programma di legislatura davanti al Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini dell’Unione, per ottenerne la fiducia ed essere insediata. Un “normale” appuntamento proprio di una democrazia parlamentare, pur con tutte le specificità di una democrazia europea in divenire.
Il programma presentato da von der Leyen non va derubricato a un fatto formale, se solo si riflette sulla sua genesi. La scelta del Parlamento europeo di puntare sugli Spitzenkandidaten era stata al centro dell’elezione di Juncker nel 2014. Questa volta il Consiglio europeo sembrava aver ripreso il sopravvento nel processo di scelta del Presidente della Commissione, forte anche del fatto che nessuno degli Spitzenkandidaten 2019 godeva di una chiara maggioranza. Una deriva che ha spinto molti a dare per morto e sepolto, un po’ frettolosamente, quel metodo.
In realtà il programma della candidata Presidente della Commissione è scaturito da intense – e di necessità frenetiche – consultazioni con i partiti politici e i gruppi parlamentari che avrebbero dovuto darle (o negarle) la fiducia. C’è in questo una evidente forzatura, che obbliga a concentrare in pochi giorni un percorso che aveva visto gli Spitzenkandidaten impegnati per mesi. Ma è anche chiaro che i partiti politici europei hanno messo sul tavolo di von der Leyen molte delle proposte al centro dei loro programmi elettorali, con un ancor maggiore potere negoziale.
Non è quindi solo un beau geste che la candidata Presidente abbia dedicato un capitolo dei suoi impegni a «una nuova spinta per la democrazia europea», invitando il Parlamento a lavorare con lei per migliorare il sistema degli Spitzenkandidaten e a valutarne i possibili collegamenti con delle «liste transnazionali» alle prossime elezioni europee. Il tutto sarà approfondito da una «Conferenza sul futuro dell’Europa» che dovrebbe coinvolgere anche i cittadini europei, essere insediata nel 2020 e completare i propri lavori in un biennio, in tempo per le elezioni del 2024.
Un altro cambiamento importante annunciato dalla prima donna Presidente della Commissione europea – che ieri ha aperto il suo discorso ricordando Simone Veil, prima donna Presidente del Parlamento europeo – è quello di voler dare l’esempio con una perfetta uguaglianza di genere nella propria Commissione. Una scelta coraggiosa e benvenuta, che potrebbe anche tradursi in tensioni con alcuni Stati membri. Specie se la richiesta di von der Leyen sarà quella di designare due candidati, un uomo e una donna, tra i quali possa scegliere (ricordiamo che alcuni Stati membri hanno già provveduto a indicare il proprio candidato Commissario).
Prendiamo dunque sul serio il discorso programmatico di von der Leyen, da leggere in parallelo ai più articolati “Orientamenti politici” per il 2019-2024 che ha presentato, sotto il titolo “Un’Unione più ambiziosa”. Non staremo a ripercorrerlo nei dettagli, ma va apprezzato che la candidata Presidente abbia sottolineato che questa ambizione si deve confrontare con uno scenario globale in cui il modello europeo è a rischio e in cui «noi sosteniamo il multilateralismo, il commercio equo, difendiamo l’ordine basato sulle regole».
Il quadro prospettato da von der Leyen vede un’Europa «primo continente a impatto climatico zero del mondo entro il 2050», con un Green Deal nei suoi primi 100 giorni, la prima «legge europea sul clima», un grande piano d’investimenti pluriennali, una «banca climatica europea» (all’interno della BEI), un adeguato «carbon pricing» e una conseguente «imposta sul carbonio alle frontiere». Un’Europa che intende fare il massimo uso della flessibilità prevista dal Patto di Stabilità e Crescita, introdurre uno «strumento di bilancio per la convergenza e la competitività della zona euro», battersi per una tassazione equa, a partire dai giganti del digitale, investire per «sfruttare le opportunità dell’era digitale in un contesto che garantisca la sicurezza e rispetti l’etica». Un’Europa in cui il Pilastro europeo dei diritti sociali viene rafforzato definendo un quadro europeo per il salario minimo e un «regime europeo di riassicurazione delle indennità di disoccupazione», migliorando «Garanzia giovani» e introducendo una «Garanzia per l’infanzia».
Sul piano dei diritti, la Presidente si impegna a combattere ogni discriminazione, a «non accettare alcun compromesso» sul rispetto dello Stato di diritto e a prevedere un «meccanismo europeo» per la sua protezione. Per quanto riguarda le migrazioni, sottolineato che «in mare vige il dovere di salvare vite umane», intende lavorare per ritornare ad uno spazio Schengen «pienamente funzionante», un «rafforzamento dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera», un effettivo «sistema europeo comune di asilo». Nel campo della sicurezza, von der Leyen – per oltre cinque anni ministro della difesa in Germania – ribadisce che «la pietra angolare della nostra difesa collettiva sarà sempre la NATO. Resteremo transatlantici e dobbiamo diventare più europei. Ed è per questo che abbiamo creato l’Unione europea della difesa». Colpisce il peso relativamente scarso dato agli impegni che l’Europa dovrebbe assumere verso il continente africano, anche se negli «Orientamenti» si fa riferimento a «una strategia globale sull’Africa».
Di fronte a questo ampio programma le forze politiche europee hanno espresso le loro legittime valutazioni e hanno pronunciato – a scrutinio segreto (forse non la via migliore per unire responsabilità e trasparenza) – dei Sì e dei No di peso: vale per il sostegno alla candidata Presidente da parte di PPE, Renew Europe, larga parte dei S&D e anche del M5S, così come per il voto contrario dei Verdi, della sinistra radicale, dei sovranisti (Lega inclusa) e dei conservatori (PiS polacco escluso). Rimane il dubbio che talune scelte europee siano ancora condizionate da scenari e tensioni nazionali (valga per tutti il caso della Germania), ma anche questo è indice e parte di un processo in divenire.
Un Parlamento frammentato ha dato origine a una maggioranza risicata. Sulle decisioni nel corso della legislatura saranno certo possibili maggioranze diverse – difficile, ad esempio, che i Verdi rimangano insensibili a una «legge europea sul clima» adeguatamente strutturata. Ma il punto di fondo è che quello presentato dal/la candidato/a Presidente della Commissione dovrebbe diventare un programma di coalizione, discusso per tempo, coinvolgendo chi rappresenta gli Stati e chi rappresenta i cittadini e avendo i partiti politici europei quale loro luogo di raccordo. Solo così le potenzialità democratiche del sistema troveranno un punto di equilibrio dinamico, a beneficio degli elettori. I partiti politici europei hanno davanti un quinquennio per strutturarsi e prepararsi alla nuove sfide. Nel 2024 non saranno possibili scuse o recriminazioni.
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