Una riflessione post Parigi

, di Federica Martiny

Una riflessione post Parigi

Come accaduto per gli attentati dell’11 settembre 2001, venerdì i programmi TV si sono bruscamente interrotti per dare spazio alla macabra cronaca degli attacchi terroristici di Parigi e alle immagini di morte. Chi era fuori casa, a cena, al pub, per strada, ha visto le stesse immagini in diretta da telefonini e Tablet: un collegamento a Facebook o twitter ed ecco l’orrore in diretta.

Perché involontariamente e un po’ irrazionalmente, siamo stati tutti pronti ad amplificare la propaganda del terrore dell’Isis, che uccide e combatte davanti alle telecamere, che usa le ultime tecnologie occidentali come una potentissima macchina da propaganda, per autoclebrarsi e soprattutto per arrivare nelle nostre case, attraverso gli schermi dei nostri PC e dei nostri telefonini. Anche se, non vogliamo dimenticarlo in questo righe, proprio questo meccanismo ha permesso che con l’hashtag #porteouvert molti parigini potessero trovare rifugio nei palazzi di chi lateralmente ha aperto la propria casa per offrire riparo.

Quello che ci interessa, qui, è sottolineare come sui social e nei salotti TV tutti abbiano sentito il bisogno di dire qualcosa su Parigi, sulla follia omicida e su cosa si dovesse fare (anche se tutti, in maniera forse involontariamente ipocrita, sostenevano che il silenzio sarebbe dovuto prevalere). Poi, sempre sui social, la polemica inutile e sciocca sulle morti di serie A e quelle di serie B, sul perché di tanta mobilitazione «mediatica» per la Francia e non per il Libano o il Kenya.

E, ovviamente, la polemica mai sopita sull’accoglienza e la chiusura delle frontiere, per salvarci dall’arrivo dei terroristi, e dimenticando che gli attentatori vivevano nelle periferie delle nostre città, delle nostre capitali, in un «fuori» non geografico ma sociale e forse culturale.

Così, mentre eravamo tutti presi a cambiare le nostre immagini profilo e a leggere tutte queste variegate prese di posizione sugli attentati, non ci siamo fermati a pensare. E non ci siamo accorti che tra un tweet e l’altro la Francia ha bombardato dei campi di addestramento dei fondamentalisti a Raqqa. La Francia, da sola. Sì, perché siamo tutti francesi e tutti europei sul web ma poi nelle vita reale, nella politica reale, si fa come sel’Europa non ci fosse. Non perché saremmo dovuti andare tutti insieme, tutti e 28, a bombardare ma perché ci saremmo dovuti fermare a discutere. Del sistema di intelligence comune, della politica estera e di difesa comune, delle operazioni militari da portare avanti o no.

Se fossimo una Federazione, se fossimo gli stati uniti d’Europa, gli attacchi a Parigi ci sarebbero stati lo stesso. I bombardamenti isolati a Raqqa probabilmente no. Se fossimo una Federazione prenderemmo sul serio la questione della gestione dell’immigrazione, avremmo più difficilmente politiche tanto contraddittorie al di qua e al di là del Mediterraneo, ciò porremmo il problema del perché gli attentatori arrivassero dalle periferie di Parigi, del perché il loro odio si sia fomentato accanto a noi, e del perché il loro obiettivo fossero così tanti giovani. Non perché se fossimo in una Federazione saremmo migliori, ma perché saremmo costretti a capire cosa fare, tutti insieme. È questo che ci manca oggi, è questo che ci rende così deboli. Qualsiasi cosa si decida di fare.

Una postilla finale, solo poche parole ancora: la commozione e la partecipazione che abbiamo visto sui social ci hanno fatto capire che, almeno in questi momenti, anche se siamo convinti di no, in fondo ci sentiamo un po’ tutti europei e sentiamo che i parigini sono nostri fratelli, sono nella nostra comunità.

Fonte immagine Wikimedia

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