La Giordania è uno stato relativamente giovane sulle scacchiere internazionali, nato in una zona di conflitto all’ombra della fine della Seconda Guerra Mondiale. Una zona che, per cause storiche di cui molti hanno discusso da più punti di vista e in maniera molto esaustiva [1], è stata protagonista della storia contemporanea, spesso per motivi tragici, come le recenti guerre civili in Yemen e Siria hanno ampiamente dimostrato. Nel calderone mediorientale, la Giordania è spesso apparsa agli occhi del pubblico come un’oasi di relativa stabilità e sicurezza, anche se spesso attraversata da venti di rivolta, di desiderio di cambiamento e di lotte interne che l’hanno resa un paese dalla struttura politica e sociale inusuale. La grande presenza di rifugiati di diverse nazionalità all’interno dei campi profughi ma anche oramai -in particolare i rifugiati palestinesi- integrati in un tessuto sociale variegato e complicato. Decisioni come quella recente di sciogliere la locale Fratellanza Musulmana dimostrano l’esistenza di un panorama politico che vede confliggenti istanze di democratizzazione, come le rivolte post-Primavera Araba inoltre dimostrano, ma anche di contenimento di quelle che dall’élite locale vengono viste come possibili minacce ad un ordine precario ma costituito.
La natura unica della Giordania nel panorama mediorientale ha spesso avvicinato i paesi stranieri interessati ad avvicinarsi, con cautela, a una regione complicata, facendone in qualche modo un bastione sicuro, un approdo per un gran numero di lavoratori stranieri. Lavoratori stranieri che sono sia manodopera proveniente da altri paesi arabi come l’Egitto o l’Iraq, e dal Sud-Est asiatico che trovano impiego nel commercio al dettaglio, servizi generali e costruzioni; allo stesso tempo troviamo anche molti lavoratori stranieri considerati come “high skill workers”, provenienti dai paesi del Golfo, dalla Cina o dai paesi considerati come occidentali, impiegati nel settore finanziario, della ricerca e delle organizzazioni internazionali, governatice e non. La presenza di questi lavoratori stranieri è correlata alla presenza in Giordania non solo di molte corporazioni, per cui la stessa municipalità di Amman ha risposto con la creazione dell’Abdali Project e di un quartiere finanziario dove prima sorgeva un mercato popolare, ma anche di ingenti finanziamenti e fondi dedicati alla cooperazione locale. Molto rilevanti, se limitiamo l’occhio al mondo cosiddetto “occidentale”, sono sia l’apporto dato dall’USAID, l’agenzia governativa americana che eroga finanziamenti a paesi stranieri che il ruolo di rilievo che hanno sia l’Unione Europea che singole nazioni come la Germania e anche l’Italia stessa.
La Germania ha una particolare relazione d’amicizia con la Giordania, che si esprime con la presenza ad Amman, ad esempio, sia della German Jordanian University che di una sede della GIZ (Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit, l’organizzazione governativa tedesca dedicata allo sviluppo e alla cooperazione internazionale. La Germania ha una forte attrattiva sulla popolazione locale. L’Istituto Goethe di lingua tedesca è molto frequentato non solo da studenti, ma anche da professionisti intenzionati a emigrare, seppur temporaneamente, all’estero. Per lo più, l’emigrazione locale verso paesi come la Germania è un’emigrazione temporanea. Non sono molti i giordani che pianificano una vita in Europa, considerata piuttosto una fase temporanea prima del ritorno nella loro nazione. Se la Germania ha quindi investito in Giordania, in particolar modo attirando a sé anche in qualche modo alcune delle migliori energie locali (o, semplicemente, alcune delle energie che potevano permettersi di viaggiare al di fuori della Giordania stessa), anche l’Italia intrattiene delle stabili relazioni con governo e compagnie locali. Mattarella ha visitato nel 2019 la Giordania e sono state frequenti anche i meeting bilaterali tra i governi delle due nazioni. Nonostante la presenza quindi di iniziative prettamente bilaterali tra nazioni europee e la Giordania, nella realtà è spesso l’Unione Europea a fare da leone nel campo sia degli investimenti che nel campo della cooperazione internazionale. È difficile riassumere tutte le attività che vengono condotte in seno alla European Neighbourhood Policy (ENP), riassunte nelle pagine dedicate della Delegazione dell’Unione Europea in Giordania. Molte delle attività condotte nell’egida dell’ENP sono riconducibili allo sviluppo della stabilità politica nazionale e regionale, al supporto delle attività dei campi rifugiati (abbondanti in Giordania), alla promozione dei diritti umani e sociali e al security building in chiave antiterroristica. L’attività europea bilaterale è stata rivolta anche verso il rinnovamento delle infrastrutture, in particolare quelle energetiche e quelle per il riciclaggio e il compostaggio di rifiuti. Iniziative tese alla modernizzazione quindi sia del tessuto sociale che del tessuto economico e infrastrutturale di paesi che troppo spesso hanno semplicemente non avuto le necessarie risorse per poter mandare avanti piani strutturali di riforma. L’operato dell’Unione Europea segue quelle linee guida stabilite nei suoi trattati fondativi, in particolare quello di Lisbona del 2007. L’articolo 10 A del trattato afferma proprio che “Union’s action on the international scene shall be guided by the principles which have inspired its own creation, development and enlargement, and which it seeks to advance in the wider world: democracy, the rule of law, the universality and indivisibility of human rights and fundamental freedoms, respect for human dignity, the principles of equality and solidarity, and respect for the principles of the United Nations Charter and international law.”
L’azione delle nazioni europee, al contrario, non è soggetta ai medesimi vincoli, come hanno ampiamente dimostrato la Libia nel 2011 e le relazioni complicate con l’Egitto da parte di diversi stati, tra cui l’Italia stessa. L’impossibilità di coordinare le relazioni estere dei suoi stati-membri rende spesso l’azione europea stessa succube degli interessi personali delle singole nazioni. Finanziamenti e pratiche collaborative hanno certamente degli impatti positivi. Vanno certamente viste come azioni sia che rispondono a quelle esigenze dei trattati che allo stesso tempo a un mero pragmatismo politico. La carica ideologica e quella pragmatica sono ugualmente presenti nell’operato europeo e si intersecano. Gli investimenti che vengono ad esempio condotti in Giordania rispondono si a delle esigenze, dichiarate dalla stessa popolazione, di pratiche di democratizzazione e in favore dei diritti umani e sociali che sono esplose fin dalla Primavera Araba. Allo stesso tempo, la sostenibilità della Giordania è una necessità impellente se si vuole mantenere una parvenza di ordine nell’area MENA. I campi profughi, la capacità dei sovrani giordani di mediare tra le parti più diverse in azione e anche il solo essere un baluardo di stabilità in una regione costantemente pervasa da venti di sfida e guerra, fanno della Giordania uno dei pochi paesi con cui è possibile interagire nell’area. La Giordania che qui abbiamo brevemente trattato fa da esempio della politica estera europea, troppo spessa divisa tra gli interessi singoli delle nazioni e dei rispettivi proxy e quelli della Comunità nel suo complesso, con il duplice effetto di creare non solo dubbi sulla matrice e sulla ragione di entrambe, ma di rallentarne lo sviluppo e frenarne gli impatti, di fatto danneggiandola. Contando che, di per sé, le nazioni europee portano su di sé il fardello della pesante eredità storica del colonialismo e del neo-colonialismo, i cui echi si fan risentire costantemente in Medio Oriente, in particolare, sembra più che mai necessario che l’UE prenda una chiara svolta nella sua politica estera e decida quale sia la strada che vuole seguire: se l’opera di 27 nazioni divise o piuttosto una politica estera che sia comune ed esclusiva
Quando opera per sé stessa, l’Unione rappresenta sì la storia e le nazioni europee, ma porta con sé al contempo il pregio dell’essere un democratico esperimento nato all’ombra di due guerre mondiali. Un esperimento che, con tutte le sue fallacie, è comunque ammantato da una serie di trattati che provano a stimolare un operato che non sia meramente legato al pragmatismo politico, ma piuttosto anche allo sviluppo di tutta quella serie di valori e idee sancite nel Trattato di Lisbona. In Giordania l’Unione ha iniziato molte opere, come il finanziamento di borse di studio e università e di associazioni per la protezione di minori, donne e minoranze, che vanno a interagire con il tessuto sociale e culturale già presente in Giordania per stimolare il cambiamento che, in qualche modo, è considerato desiderabile. Questo apre certamente le porte per un infinito dibattito su cosa voglia dire desiderabile, su cosa si voglia auspicare per il futuro della regione MENA e per quelli che sono i regimi attualmente esistenti. Ma su una cosa si può essere abbastanza certi: l’operato UE si distanzia da quello dei singoli paesi membri, quanto meno nelle intenzioni formali e certamente nella mancanza di una vera struttura post-coloniale. Si intende con questo affermare che, a differenza di una Francia, di un’Italia o di un’Inghilterra, come entità nel suo intero l’UE non strascica con sé il peso della storia coloniale. Non tutti potrebbero essere d’accordo con questa affermazione. Per molti studiosi il passato coloniale e l’azione post-coloniale sono ancora insiti nella cultura occidentale e nel suo operato. Eppure, al contempo, l’Unione porta con sé energie nuove e diverse, nonché la possibilità di trasformare la politica estera in un sistema capace di essere sia favorevole all’Unione di per sé, ma che possa anche rispondere a quelle esigenze, che possiamo in breve definire come “etiche” o “morali”, come sancito nel Trattato di Lisbona del 2007. Questo equilibrio tra pragmatismo politico ed economico e ragioni idealistiche è difficile sia da ottenere che da mantenere. Per alcuni è un equilibrio di cui nemmeno ci sarebbe bisogno, ma se l’idea di una Federazione Europea non risiede solo nei desideri di potere, ma piuttosto anche in quelli di costruire un’entità mai costruita prima che sia capace di essere una best practice per modellare il futuro in senso democratico, pacifico, di rispetto dei diritti umani fondamentali e di miglioramento complessivo della qualità della vita, quello è un equilibrio a cui dobbiamo aspirare.
Valutare l’operato UE all’estero è sempre molto difficile, a causa di quelle problematiche prima espresse e sulla compresenza di una politica estera europea e di politiche estere di paesi europei. In generale, se l’operato dell’UE sembra ben recepito, è ancora esso percepito come un plus, in cui però la parte del leone l’hanno ancora le diplomazie nazionali. Questo è un piano su cui l’Europa, per darsi una svolta sul piano federale, dovrà intervenire con forza e decisione. Se le iniziative europee all’estero, come quelle operate in Giordania, sono sia pregnanti di etica che efficaci, anche meramente dal punto di vista del semplice rinnovamento delle infrastrutture energetiche ad esempio, esse sono ancora troppo limitate dalla scarsità di budget che gli è destinato complessivamente sia dall’essere in competizione, ironicamente, con le politiche nazionali. L’Unione ha bisogno, insomma, di una politica estera comune che sia esclusiva. Lo abbiamo già affermato per le crisi libica e siriana, sulla necessità di una voce unica proveniente dai 27. Se questo vale per le aree di conflitto, è essenziale anche quando il conflitto ancora non c’è. La possibilità che l’azione europea migliori e stabilizzi la regione circostante e che di riflesso dimostri alla stessa Europa la sua capacità, di attore internazionale responsabile ma anche capace di reagire compatto alle sfide, regionali e mondiali, che questo XXI secolo sta lanciando, è un’opportunità che deve essere colta al più presto.
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