Per la seconda volta consecutiva, Emmanuel Macron ha conquistato la guida dell’Eliseo. La sua vittoria contro la rivale Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, è stata incisiva: il 58% dei voti contro il 42%, per un distacco di oltre quindici punti a favore del candidato de La République en Marche. Una vittoria che conferma il quadro politico emerso dalle precedenti elezioni del 2017, con la fine dei partiti tradizionali e la leadership della Francia in Europa.
Sul piano interno, il superamento della politica tradizionale è già apparso evidente nel 2017, quando Macron, nel discorso di lancio della sua campagna elettorale, dichiarò: «Non siamo di destra o di sinistra, solo francesi». Una posizione di stampo centrista che ha sancito la scomparsa dei Socialisti nel 2017 e dei Repubblicani oggi, il binomio partitico in cui si sono alternati i Presidenti francesi della Quinta Repubblica.
A confermare questa tendenza è stato infatti l’elevato tasso di astensionismo di queste elezioni. Una prova di come il voto sia non tanto di appartenenza ma di malcontento, ormai indirizzato a favore di movimenti “pigliatutto” privi di ideologie chiare. Inoltre, la stessa attrattiva di Macron per gli elettori dei partiti tradizionali non è sinonimo della sua popolarità. Come affermato dal politologo francese Olivier Roy, rappresenta piuttosto «una vittoria per difetto» avvenuta «perché l’opzione Marine Le Pen è stata considerata inaccettabile dalla maggioranza dei francesi».
Per non tradire la fiducia dei suoi elettori, il Presidente francese dovrà rivelarsi all’altezza delle numerose sfide che lo attendono nei prossimi cinque anni. Tanto sul piano interno, a partire dalla realizzazione delle riforme da lui promesse come quella sulle pensioni, quanto su quello europeo e globale. Di certo, la rielezione di Macron fa tirare un sospiro di sollievo all’Europa, con il rilancio dell’asse franco-tedesco e la sua ambizione a rafforzare l’autonomia dell’Unione nel campo della difesa e dell’energia.
Tutto questo non è però privo di incognite. Lo spettro del sovranismo ancora si aggira in Europa. Oltre a Le Pen ed Éric Zemmour in Francia, anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni in Italia, Janez Janša in Slovenia (sebbene sconfitto alle elezioni andate in scena sempre in questo weekend) e Viktor Orbán in Ungheria continuano a rivendicare la dimensione nazionale su quella sovranazionale. Dall’ovest, i sovranisti ostacolano la condizionalità monetaria ed economica e auspicano un ritorno al pre-Maastricht e alla separazione dalla BCE; dall’est, sono contrari a quella politico-giuridica connessa all’attribuzione dei fondi europei, mentre l’attaccamento alla componente identitaria fomenta la loro ostilità all’immigrazione.
Con la vittoria di Macron, la partita europeista non è ancora del tutto vinta. Le spinte che minacciano dall’interno l’Unione Europea sono ancora molte e pericolose, specialmente in un momento reso ancora più delicato dal conflitto in Ucraina. La scelta sul futuro dell’Europa è ancora da vedere.
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